Pocar dopo il suicidio di Praljak:
«L’Aja, un’altra Norimberga
Bombe criminali a Mostar»

Pocar dopo il suicidio di Praljak: «L’Aja, un’altra Norimberga Bombe criminali a Mostar»
di Marco Ventura
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Venerdì 1 Dicembre 2017, 00:16 - Ultimo aggiornamento: 20:20

Ultimo giorno, ieri, per Fausto Pocar come decano (e presidente dal 2005 al 2008) del Tribunale penale internazionale per l’ex Jugoslavia che chiude i battenti: 18 anni della sua vita, 24 del Tribunale, finiti con l’ex generale croato Slobodan Praljak che si uccide col veleno in diretta tv. Pocar era nell’aula: è testimone, non vuole parlarne. Fu Praljak a ordinare nel ’93 la distruzione del Ponte di Mostar. Per questo, però, è stato assolto.

Lei, professor Pocar, non è d’accordo. Perché?
«La maggioranza dei giudici ha stabilito che il ponte era utilizzato anche per scopi militari, quindi era un obiettivo militare, non solo civile. Ma le regole di proporzionalità nel diritto dei conflitti armati vanno interpretate in modo severo e restrittivo. Perché sia legittimo abbattere un capolavoro d’arte occorre un’assoluta necessità militare, non la semplice opportunità».



Che differenza c’è con Norimberga?
«I giudici di Norimberga lavorarono in assenza di precedenti, mentre noi abbiamo utilizzato la loro giurisprudenza. I giudici di Norimberga si concentrarono sul concetto di persecuzione, anticamera del genocidio. All’Aja ce ne siamo serviti, così come del principio della responsabilità del comandante: chi dà ordini non ha scusanti (per questo Praljak è stato condannato a 20 anni, ndr)».

Avete affrontato crimini nuovi?
«Sì e no. Molti casi, pur basati sul diritto consuetudinario, non erano stati portati in giudizio. Norimberga giudicò i ‘crimini contro l’umanità’, non il genocidio in quanto tale, identificato con la Convenzione del 1948. Noi per la prima volta abbiamo giudicato il genocidio parziale. In Ruanda era chiaro che i Tutsi andavano eliminati tutti. Nell’ex Jugoslavia, l’intenzione di distruggere completamente il gruppo musulmano non è stata provata, ma abbiamo riscontrato un genocidio parziale nel massacro di Srebrenica, un’area protetta. Il messaggio era: il gruppo musulmano non ha scampo».

E gli stupri etnici?
«Il nostro è stato il primo processo in cui lo stupro è stato definito come crimine di guerra. Mai prima era stato applicato lo stupro di massa. Più di Milosevic, Mladic o Karadzic, mi hanno colpito le piccole testimonianze alle quali era difficile credere. Come la 14enne che si è sentita dire dal suo stupratore ‘smetti di piangere, mi fai pensare a mia figlia’. Mi sono chiesto cosa può passare nella mente di una persona così. O la testimone che dimostrava più di sessant’anni, una vecchietta, invece ne aveva 36: la sua bambina era stata rapita e nessuno sapeva che fine avesse fatto».

Ed è successo in Europa.
«Significa che può accadere dappertutto. Mai abbassare la guardia. Là dove la civiltà è più elevata, bisogna tenerla alta. Difficile per un giudice mantenere la distanza, non bisogna farsi emozionare: un processo deve tener conto anche dei diritti della difesa».

C’è stato qualcuno più colpevole di altri?
«Cambia la quantità dei casi, in parte dovuta all’accessibilità delle prove. Ma più o meno i crimini sono stati commessi da tutti. Non mi sento di dare colpe collettive. Il giudice valuta i casi individuali».

Altre difficoltà?
«È stato un conflitto internazionale, tra Stati succeduti alla ex Jugoslavia, ma anche interno, in Bosnia tra gruppi in guerra tra loro e con il governo. Qui le Convenzioni di Ginevra erano inapplicabili, perciò abbiamo fatto ricorso al diritto consuetudinario. In generale, abbiamo adottato il sistema anglosassone, con interferenze del diritto continentale».

E adesso che tutto è finito?
«Ho una sensazione mista. Positiva per il lavoro svolto, ma anche di non aver fatto abbastanza. Si poteva sperare che la giustizia potesse fare di più, ma ha i suoi limiti: da quelle parti non è che la riconciliazione abbia compiuto grandi passi avanti. La storia può ripetersi».

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