Perché il conflitto rende più forte l’Isis

di Alessandro Orsini
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Domenica 8 Gennaio 2017, 00:06
L’immigrazione e il terrorismo sono strettamente legati. Il problema è comprendere come.
Iniziamo dai fatti.
Mohamed Bouhlel, l’autore della strage di Nizza del 14 luglio, si era trasferito a Nizza nel 2005 dalla Tunisia. Anis Amri, l’autore della strage di Berlino, era sbarcato in Italia nel febbraio 2011 dalla Tunisia. Adel Kermiche, il diciannovenne che ha ucciso il sacerdote cattolico nella chiesa in Normandia, il 26 luglio, era il figlio di una coppia di migranti provenienti dall’Algeria. I fratelli Kouachi, che hanno realizzato la strage di Charlie Ebdo del 7 gennaio 2015, erano figli di migranti provenienti dall’Algeria. Dal momento che gli attentati contro le città europee sono stati realizzati da migranti o da figli di migranti, sarebbe possibile affermare che, senza l’immigrazione, non avremmo avuto le stragi. Questa conclusione può andar bene per coloro che concepiscono la politica come un mezzo per regolare i conti e non per risolvere i problemi. Gli uomini politici, dotati di forza vitale, non rimpiangono il passato. Progettano il futuro.
Ragioniamo.

Il problema della marginalità sociale dei migranti esiste da decenni. Eppure, negli ultimi due anni abbiamo assistito alla moltiplicazione dei terroristi jihadisti nelle città europee ovvero da quando l’Isis si è proclamato Stato, il 29 giugno 2014. Perché la radicalizzazione jihadista è diventata così impetuosa? La risposta si chiama “ideologia”. Quando un migrante è colpito da forme radicali di sofferenza, può intraprendere molte strade che conducono all’autodistruzione, tra cui il crimine violento, l’alcolismo, la depressione o il suicidio. La storia sociale dell’immigrazione è piena di percorsi di vita così tragici. I migranti, con problemi analoghi a quelli del terrorista di Nizza o di Berlino, esistono da sempre. Il problema nasce dal fatto che l’ideologia jihadista ha fornito una nuova possibilità di azione ai migranti che non sono riusciti a integrarsi. La vera novità non è rappresentata dai migranti come Anis Amri, ma dalla rapidità con cui si è diffusa l’ideologia jihadista.
Ecco perché la domanda più importante è: “Quali fattori hanno favorito una tale diffusione?” La risposta è: “Politica internazionale”. L’Isis, intesa come struttura statuale, e la sua ideologia, si sono diffuse a causa di una serie di errori commessi in Medio Oriente dalle potenze occidentali e dai loro alleati regionali. Il primo errore è stato l’invasione dell’Iraq da parte di Bush che ha provocato la nascita di al Qeada in Iraq (Aqi), da cui si è sviluppato l’Isis. Il secondo errore è stata la scelta di Turchia, Arabia Saudita, Qatar e Stati Uniti di finanziare la ribellione contro il dittatore della Siria, Bassar al Assad. Anziché intervenire per pacificare le parti in lotta, questi paesi hanno alimentato il conflitto dall’esterno, rendendo possibile l’ascesa dell’Isis che ha potuto consolidarsi in Siria grazie al crollo dell’esercito di Bassar al Assad. A parlar chiaro si fa prima: senza la guerra in Iraq e in Siria, lo Stato Islamico non esisterebbe. Ne consegue che la parola magica per ostacolare la diffusione dell’ideologia jihadista nelle nostre città è “pace” e non “guerra”. Da qui l’urgenza di elaborare lo slogan più adeguato contro i processi di radicalizzazione: “Pace in Medio Oriente”.

Al Qaeda in Iraq è nata dopo l’abbattimento del regime di Saddam Hussein nel 2003; lo Stato Islamico è sorto dopo lo scoppio della guerra civile in Siria, iniziata nel marzo 2011; la nascita dell’Isis in Libia, con l’occupazione di Sirte, è avvenuta dopo il crollo del regime di Gheddafi e l’avvio della guerra civile nel febbraio 2011; la nascita dell’Isis in Egitto e nella penisola del Sinai è avvenuto dopo l’arresto di Morsi e il colpo di Stato del generale al-Sisi nel luglio 2013 che ha generato una nuova guerra civile; l’occupazione della città di Mukalla sulla fascia costiera dello Yemen, da parte di gruppi legati ad al Qaeda, è avvenuta dopo l’avvio della guerra civile in Yemen e l’inizio dei bombardamenti sauditi, iniziati nel marzo 2015. È semplice: prima arriva la guerra e poi l’Isis.
In sintesi, l’intensità e la rapidità dei processi di radicalizzazione nelle città occidentali sono legati, in modo decisivo, alla diffusione della violenza politica nei paesi a maggioranza musulmana. Più grande e duratura è la violenza, maggiore è l’intensità della radicalizzazione nelle città europee. I jihadisti che hanno realizzato un omicidio o una strage nelle città occidentali, dal 2004 a oggi, hanno trovato nelle immagini violente provenienti dal Medio Oriente uno dei principali fattori del loro processo di radicalizzazione.
Il miglior antidoto contro la radicalizzazione nelle città occidentali si chiama: fine delle guerre in Medio Oriente. L’Isis non sarà travolto dalla guerra, ma dalla pace. L’augurio è che, una volta chiuso il conflitto in Siria, a nessun capo di Stato occidentale venga in mente di aprirne un altro con l’Iran.
 
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