L’idea iniziale era di andare tra ottobre e novembre, non prima per via delle temperature proibitive in quella area geografica. Nel frattempo la situazione politica e militare è precipitata, è stato un susseguirsi di eventi che hanno portato di nuovo alla guerriglia, alla rottura del cessate il fuoco mentre la situazione umanitaria peggiorava ulteriormente. Gli scontri sono ripresi in tutta la regione, in una terra segnata da conflitti tribali, alimentati dai cosiddetti signori della guerra, insomma un ginepraio. Le organizzazioni umanitarie sono state le prime a segnalare, settimane addietro, che l’equilibrio stava saltando, che i soldati si macchiavano di comportamenti indegni. Uccisioni di massa, stupri, violenze nei villaggi. Un particolare che non è stato ignorato nemmeno dal presidente Salva Kiir attraverso una denuncia pubblica. Ondate di fuggitivi hanno preso a spostarsi dai villaggi, verso mete imprecisate, per sfuggire al terrore. La sopravvivenza si misura ogni giorno e la crisi alimentare ha ripreso a falcidiare la gente.
Il presidente americano, Trump ha promesso a Papa Bergoglio che gli Usa avrebbero destinato nell’immediato maggiori quantità di risorse e denaro in quell’area per combattere fame, denuntrizione e carestia. Il sogno del viaggio papale sembra svanire anche nei vescovi sudanesi che, sei mesi fa erano arrivati a Roma per invitare il Papa, per incoraggiarlo a portare una parola di pace capace di riaccendere i riflettori della politica internazionale su quel fazzoletto di terra dimenticato. Monsignor Paolino Luky, vescovo di Juba, spera ancora in un miracolo fino alla fine. Resta convinto che Papa Francesco possa essere la chiave di volta nel processo di pace. Nel Sud Sudan ci sono quattro milioni di cattolici presenti nel Paese, circa un terzo della popolazione totale.
© RIPRODUZIONE RISERVATA