Oltre il libero scambio/ La trattativa tra gli Stati cambierà il commercio

di Giulio Sapelli
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Giovedì 24 Novembre 2016, 00:03
Sono tra coloro che mesi fa auspicavano che il Partenariato transatlantico per il commercio e gli investimenti (il cosiddetto TTIP), ovvero l’accordo commerciale di libero scambio in corso di negoziato dal 2013 tra l’Unione Europea e gli Stati Uniti, avesse finalmente un punto di caduta, vedesse la luce insomma. Ma questo mio auspicio fondava sulla convinzione che né Brexit né il clamoroso cambio di bandiera dell’elettore americano si sarebbero verificati. E dunque il mio auspicio traeva forza dalla necessità che l’accordo potesse in qualche modo rianimare un commercio globale in via di decadenza. Ma il voto inglese e quello americano hanno spazzato via d’un colpo le mie convinzioni, di fatto imponendo un nuovo paradigma. Ed è con questa nuova architettura della politica atlantica che siamo chiamati a fare i conti.

Perciò non mi strapperò i capelli se il morente TTIP non vedrà mai la luce perché Donald Trump non ne vuole sapere. E d’altro canto sono almeno vent’anni che non si riesce a concludere un accordo di commercio internazionale multipolare, ossia tra più partecipanti. Basti ricordare gli interminabili negoziati chiamati “Uruguay Round”: non si concluse nulla per anni. 
Le ragioni? Molteplici. Una su tutte e che molti probabilmente hanno rimosso: due grandi Paesi industriali tra quelli seduti al tavolo erano anche grandi produttori agricoli (la Francia e gli Stati Uniti, ai quali oggi si aggiungerebbe l’India).
Ciò creava una serie di ostacoli che rendeva assai complicate le compensazioni tariffarie e di standard tra industria, produzione e servizi. La causa di ciò era la difficoltà di tali paesi di mediare con le esigenze dei loro contadini, piccoli e grandi, capaci di azioni pubbliche clamorose e destabilizzanti. Inoltre, il contadino è per definizione un elettore stabile e inamovibile più di ogni altro: ciò spiega perché le politiche agricole sono spesso decisive in ogni latitudine. L’Europa è un esempio preclaro di ciò.
Ora però le cose si fanno drammatiche. Da dieci anni il commercio mondiale è in calo mentre, salvo rare puntate speculative, i prezzi delle materie prime si sono fortemente ridotti. Non solo: la catena distributiva delle grandi imprese, ossia la supply chain, si è ricomposta e accorciata mentre i componenti industriali si costruiscono in sempre meno nazioni perché, grazie alla globalizzazione, i salari salgono nei Paesi emergenti e crollano in quelli ad antica industrializzazione. Di qui il fallimento delle imprese-container che una dopo l’altra cadono come birilli: prima le europee, poi le sud coreane e nord americane, ora tocca alle giapponesi e più avanti probabilmente alle cinesi.
E siamo alla Cina, un’altra delle cause scatenanti il crollo del commercio multilaterale. Dopo un euforico sviluppo dell’import all’inizio della grande marcia verso il capitalismo, Pechino è progressivamente entrata nell’era della sostituzione delle importazioni, ossia fa ora da sé molti prodotti che un tempo acquistava all’estero, così spiazzando quanti avevano scommesso su un “rientro” più lento e dunque mandando al tappeto le iniziative che avevano puntato sull’eterno compratore. 

Un dramma non da poco, che ha destabilizzato più di una economia. E certo questo dramma non lo ha provocato Trump e neppure potrebbe provocarlo. Si tratta infatti di una non prevista evoluzione della globalizzazione che si ripiega su se stessa e riscopre che gli scambi ormai son tutti tra imprese e imprese e non tra Stati e Stati, fatti salvi i servizi alla persona come quelli dell’Itc che però non aumentano né la produttività né i redditi, anzi in questa fase sono più di danno che di beneficio per la comunità presa nel suo insieme.
In questo scenario ogni politica di sanzioni economiche, ossia di blocco commerciale, è decisamente più nefasta di quanto normalmente non sia. Di qui la saggezza di Trump (può apparire inappropriato definire saggio il nuovo presidente degli Stati Uniti ma, avrebbe detto Friedrich Hegel, esiste un’astuzia della ragione che né i Clinton né gli Obama conoscono) che subito ha precisato di voler favorire l’abolizione delle sanzioni nella negoziazione preferenziale che vuole aprire con la Russia. Sicché è probabile che il commercio con quest’ultima avrà un grande balzo in avanti con benefici molteplici non solo per l’Italia, ma per l’Europa tutta. Peraltro, solo così si potranno forse porre le basi di una ripresa che ostacoli la spinta suicida della deflazione a trazione teutonica, rinverdita in questi giorni dalle provocazioni del ministro delle Finanze tedesco Wolfgang Schauble.

È questo ciò che tutti dovrebbero augurarsi, di là delle stucchevoli polemiche sui conflitti d’interesse del tycoon-presidente che scaldano solo gli animi dei circoli italiani e di qualche dem americano che pensa di essere ancora
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