Timori degli investitori stranieri dietro l'assist di Obama a Renzi

Timori degli investitori stranieri dietro l'assist di Obama a Renzi
di Marco Conti
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Mercoledì 14 Settembre 2016, 08:01 - Ultimo aggiornamento: 08:02
«E' quello che mi sento dire da tutti quando sono all'estero. E mi chiedono anche se le cose che si dicono poi vengono fatte». Matteo Renzi non è sorpreso per le affermazioni dell'ambasciatore americano in Italia John Phillips. Le critiche alla presunta ingerenza lo fanno sorridere perché nel suo tour da piazzista del made in Italy - ultima la trasferta in Cina - è proprio la stabilità del nostro Paese a preoccupare imprenditori e investitori. Fedele alla linea dei toni bassi e della spersonalizzazione, Renzi e i vertici del Pd non cavalcano però l'endorsement anche se giudicano eccessiva la reazione delle opposizioni e della sinistra interna che sempre più sovrappone l'Italicum al referendum.

MISSIVA
Interrogato sull'argomento il Dipartimento di Stato americano preferisce tacere. Surreale, quindi, interpretare la sortita dell'ambasciatore Phillips come frutto di una missiva spedita da Washington. Tantomeno ipotizzare un'azione combinata con l'agenzia di rating Fitch. Anche perchè l'ambasciatore americano è noto per la sua spontaneità. La stessa che gli permise, nel marzo scorso, di sollecitare l'Italia ad inviare cinquemila uomini in Libia. Non se ne fece nulla, ma non per questo Washington ci rimase male.

I rapporti tra Renzi e Obama sono ottimi da tempo, come dimostra l'invito a cena per il 18 ottobre che la Casa Bianca ha fatto a Renzi e signora. Trattamento importante che a suo tempo Clinton riservò a Prodi e Bush a Berlusconi.

Dopo aver trascorso i primi quattro anni di mandato incontrando tre differenti presidenti del Consiglio italiani (Berlusconi, Monti e Letta), ad Obama non deve sembrar vero rivedere ad ogni summit lo stesso premier italiano da tre anni. Senza contare che ad inizio 2013, in una fase di estrema incertezza per l'Italia, Obama si era dovuto rivolgere all'allora presidente della Repubblica Giorgio Napolitano per comprendere ciò che stava accadendo nel Paese alleato. Senza arrivare alla longevità politica della Merkel, all'alternanza quinquennale francese o alla stabilità mostrata dagli inglesi anche dopo lo schok della Brexit, a Washington l'instabilità italiana è stata sempre vista con insofferenza. Ed è anche per questo che nei lunghi anni a palazzo Chigi Silvio Berlusconi è riuscito ad instaurare con il predecessore di Obama, George W Bush, un rapporto solido.

CLAMORE
Eppure, malgrado la reciproca stima e gli apprezzamenti di Obama «per la capacità di leadership di Matteo», in questi anni non sono mancate le differenze tra i due. Dal Ttpi, all'Ucraina sino al rapporto con la Russia, la dialettica è stata a volte rude ma sempre in un quadro di «relazione speciale» come ieri l'ha definita il ministro degli Esteri Paolo Gentiloni intervenendo in un incontro organizzato dal Centro Studi Americani.

Una relazione che la decisione britannica di lasciare l'Europa ha reso ancor più salda proprio per il timore di Washington che il risultato di un secondo referendum possa dare un colpo mortale all'Unione Europea. Una preoccupazione che nell'aprile scorso permise ad Obama di intervenire direttamente nella campagna elettorale schierandosi contro la Brexit. Un intervento, fatto a Londra, che non suscitò reazioni clamorose se non si conta quello dell'allora sindaco di Londra. Invece da noi, considerava ieri sera il premier, «si è scatenato un dibattito lunare».

«Considerazioni di buon senso», le definisce il sottosegretario agli Esteri Benedetto Della Vedova secondo il quale «la stabilità resta uno dei più importanti requisiti richiesti dagli imprenditori». Più o meno ciò che c'è scritto nell'ultimo rapporto (febbraio) dell'Aibe Index - l'indice realizzato dall'Osservatorio sull'attrattività internazionale dell'Italia in un'ottica di investimento di medio-lungo periodo. Nello studio l'Italia viene giudicata «in ripresa grazie all'Expo e alle riforme». «Secondo l'85% dei rispondenti - si legge - sono le grandi riforme, come quella del mercato del lavoro e quella del sistema elettorale, che possono favorire l'attrattività dell'Italia per gli investitori esteri».

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