Muhammad Ali: dall’oro di Roma ‘60 alla fiaccola di Atlanta

di Piero Mei
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Domenica 5 Giugno 2016, 00:10 - Ultimo aggiornamento: 14:10
«Ehi! Impara a tirare di boxe se vuoi dargli una bella ripassata», disse il poliziotto di Louisville al ragazzo. 
Louisville è nel Kentucky, la terra dove l’erba è blu, e il dodicenne era Cassius Clay che un po’ frignava, un po’ schiumava rabbia e molto avrebbe voluto dare una lezione a quello sconosciuto che era scappato inforcando la sua bicicletta portandosela via.
Imparò, Cassius, tanto da diventare Muhammad Ali, il più grande si sempre, come diceva di sé e dicevamo e dicevano di lui. Se n’è andato a 74 anni. Se n’è andato, ma morire no: i Supereroi non muoiono e di quella sparuta pattuglia Ali fa parte, lui che «vola come una farfalla e punge come un’ape», come raccontava, e che rifiutò la guerra del Vietnam perché «nessun vietcong mi ha mai chiamato negro», mentre negli Stati Uniti ce lo chiamavano spesso, anche quando aveva già vinto l’oro di Roma ’60.
Gettò la medaglia nel suo fiume Ohio il giorno che non lo fecero entrare in un ristorante di Louisville dedicato ai soli bianchi; anni dopo sarebbe stato l’ospite d’onore al Derby del Kentucky, nella tribuna delle rose tra le ingioiellate signore bene. L’America è cambiata un po’, se non molto né del tutto, anche grazie ai pugni di Ali e a quelli del suo contemporaneo Tommy Jet Smith che ne alzò uno contro il cielo basso di Messico ’68 dal podio olimpico.

Ali, che è stato tre volte campione del mondo dei pesi massimi, al termine di leggendari incontri contro avversari un po’ meno leggendari di lui ma formidabili, emozionava le genti. E le emoziona ancora: la famosa Generazione 2.0, che non l’ha mai visto combattere né dal vivo né in tv, ha visualizzato in un anno più di 10 milioni di volte gli highlights dei suoi knockout su Youtube. Ha potuto vedere la rivoluzione della boxe: quella di Ali era davvero Noble Art, non più picchiatori ma colpitori, il pugilato come intelligenza delle mosse altrui, ragionamento sulle proprie, rispetto del contendente e della contesa. Arte e nobiltà per l’appunto.
La notte di Rumble the Jungle, il match di Kinshasa con il quale nel ’74 si riprese il titolo mondiale contro Foreman, sentì il grido dell’Africa tutta, Ali boumayé, uccidilo Ali. Non lo uccise: lo sfinì, combattendo al contrario di come aveva sempre fatto, non ballandogli davanti e colpendolo, ma lasciandolo sfogare e poi “sistemandolo”. Allah era sul ring, disse Ali. La notte di Thrilla Manila, quando sconfisse Joe Frazier, fu la notte più dura della boxe: nessuno si consumò mai tanto su di un ring. Del resto ha detto una volta di «aver preso 29 mila pugni». Quali siano stati quelli che l’hanno avviato al morbo di Parkinson, che è stato il suo calvario degli ultimi anni, non è dato sapere.

 
Però quando, ultimo tedoforo, le luci illuminarono Ali tremante e di bianco vestito nello stadio usa e getta di Atlanta ’96, l’umanità ebbe una stretta al cuore. Ali no: fu difficile accendere quel braciere, la torcia non era dritta e sicura come i suoi pugni d’un tempo, la fiaccola sembrava volersi spegnere in quel tremolio, ma s’accese e l’umanità sospirò il suo sollievo. Del resto era proprio Ali che l’aveva detto: «Dentro a un ring oppure fuori non c’è nulla di sbagliato nell’andare al tappeto. È restare al tappeto senza rialzarsi che è sbagliato».
Alì al tappeto non ci rimase mai: che fosse il ladro di biciclette da punire, l’America della sporca guerra o dell’ancor più sporco razzismo da combattere, Sonny Liston da mettere giù con il phantom punch, il pugno fantasma, del primo round, pure se la volta dopo a Sonny misero il sale sui guantoni perché accecasse Ali; che fosse Larry Holmes che diceva di dover tutto ad Ali («allora perché mi hai menato?»), o Papa Wojtyla che gli confessava di essersi fatto dare di nascosto le chiavi del refettorio quando, non ancora porporato, c’era da star svegli la notte per vederlo combattere, o Saddam Hussein dal quale ottenne la liberazione di 120 americani, o George Bush al quale, nel credo del «buono o brutto è il mio Paese», disse sì nell’andare a cercare la pace islamica negli States dopo l’11 settembre; che fosse l’ormai antico proclama «io sono il più grande» o il più recente malinconico sussurro «ormai sono un barbone», Ali non è mai restato al tappeto. Tutt’al più era un fiabesco tappeto volante.
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