Migranti, tenacia e fermezza hanno svuotato la rotta libica

di Paolo Graldi
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Sabato 9 Settembre 2017, 00:05
Con sano realismo, a Palazzo Chigi e ai piani alti del Viminale il tema dell’immigrazione viene trattato evitando trionfalismi e tuttavia camminando con cauto ottimismo sul futuro di una partita di enorme portata, complessa, densa di incognite.

La polemica politica si sporca di vanterie su chi per primo ha fornito le ricette giuste: il refrain stanca, è un disco rotto. I dati freschi confortano e confermano che le catastrofiche aspettative per l’estate che sta chiudendosi sono state scongiurate: meno 83% di sbarchi in agosto rispetto all’anno scorso, meno 63% rispetto a luglio 2016. Si è fermata una emorragia che poteva travolgere qualsiasi barriera e mettere a repentaglio il clima generale del Paese, se non proprio la democrazia stessa, come prospettava il ministro dell’Interno Marco Minniti.

Il fronte delle partenze in massa sui gommoni usa e getta dalla Libia verso i nostri approdi è fermo: il dialogo con Fayez Al Sarraj (lato Tripoli) e con il generale Khalifa Haftar (lato Tobruk) e con le tribù e i sindaci, con tutti i distinguo del caso e le reciproche sospettosità, resta aperto con gli interlocutori italiani, anche al massimo livello governativo, pur in presenza di contributi interessati da Parigi e da Mosca, i quali rendono il quadro indefinito e in faticoso divenire.

È senz’altro una vittoria italiana, anche attraverso la determinazione del ministro del Viminale di imporre regole ai soccorritori delle Ong, qualche volta troppo pronti a raccogliere i naufraghi, quella di aver reciso un flusso che si auto alimentava proprio attraverso la facilità (certo, non senza rischi) di arrivare ad approdi sicuri sulle nostre coste. Com’era prevedibile, adesso si cercano altre vie. Piccoli scafi con poche decine di migranti sono arrivati a Lipari, la più grande delle isole Eolie, in un porticciolo a sud della Sardegna e alcuni sono stati soccorsi mentre nuotavano pericolosamente verso approdi ancora lontani. Sbarchi fai da te, quasi improvvisati, che forse tagliano fuori la pesante mediazione degli scafisti in mare e dei trafficanti di uomini a terra: un altro segno della forza della disperazione che non vede e non conosce ostacoli. Ma siamo già ai piccoli numeri. Chi resta sulla sabbia riarsa e crudele del deserto, denunciano le Organizzazioni umanitarie senza ricevere smentite, è prigioniero di un inferno invisibile e terribile. E questa è l’altra faccia di una partita che ha bisogno di condivisione internazionale per essere giocata nel nome di valori per noi imprescindibili. Nell’intrecciarsi dei negoziati, più segreti che palesi, il generale Haftar lancia proposte di collaborazione con contropartite fatte di uomini e mezzi da disseminare lungo quattromila chilometri di frontiera a sud. Per ora, dice, solo palliativi. Con 20 miliardi di dollari, una cifra giudicata appena adeguata ai bisogni, il discorso si farà concreto e serio. Sempre che il rapporto con Sarraj, temuto come nemico fino a poco fa, non trovi un terreno d’intesa interno, superando logiche antiche e bellicose per loro natura.

La tela intessuta da Paolo Gentiloni negli incontri internazionali con Parigi e Berlino, l’attesa di una vittoria di Angela Merkel nella prova elettorale di fine settembre, e l’azione a largo raggio di Marco Minniti, hanno realisticamente cambiato lo scenario dei confronti a più voci. Minniti ci mette la faccia. Vaga tra un impegno istituzionale e l’altro, negli incontri politici di fine estate per spiegare in mezzo alla gente, appassionatamente, il cambio di passo di una politica per troppo tempo attendista e distratta: non accetta il ministro di polizia con esperienza ventennale nel ramo della sicurezza di coniugare le scelte con lo schema frusto della destra e della sinistra e non del fare bene e fare meno bene o male.

La schiettezza della sua analisi, segnata da una forte discontinuità rispetto al passato e ai predecessori, lo porta a raccogliere apprezzamenti sperticati ma anche insulti gratuiti («È uno sbirro professionale», lo investe Gino Strada, capo di Medici Senza Frontiere) e definizioni biografiche pittoresche. «Austero personaggio», lo etichetta il Guardian, occhiuto quotidiano britannico. In tutto questo, con inevitabili riverberi sulla popolarità dell’azione di governo (in crescita) e qualche venatura di gelosie e mal di pancia intestini.

La sentenza della corte di Giustizia del Lussemburgo che ha riconosciuto le buone ragioni di Grecia e Italia nella pretesa di condividere il peso e la responsabilità della “relocation” ripone al centro della politica Ue la scottante questione. Pena il blocco dei finanziamenti comunitari. I Paesi riottosi - Slovacchia, Ungheria, Polonia e Repubblica Ceca - non intendono piegarsi alla sentenza che li richiama ai doveri di membri della Comunità e proprio in queste ore quel cielo sopra l’Europa è attraversato da lanci di razzi polemici tanto che, qualcuno dei premier, preferisce fare a meno dei fondi, come punizione, piuttosto che aprire le porte di casa a qualche immigrato. Spinosissima questione che si trascinerà a lungo e voleranno parole grosse ancora per molto tempo incrociandosi con la richiesta, anche italiana, di rimettere mano al trattato di Dublino, incautamente sottoscritto anche da noi, che prevede l’obbligo per i Paesi di primo approdo a dare asilo ai profughi.

Questa sì che è la madre di tutti i nostri guai dai quali guariremo a fatica, questo è certo. L’insieme di diversi fattori concomitanti, ad ogni buon conto, fa franare una situazione che si muoveva dentro una pericolosa china: tutto il peso su di noi, con un crescente riverbero di insofferenza diffusa, di paura aleggiante tra la gente, autentica e in crescita, tra soluzioni improvvisate da buonismo da bar e populismi gridati da osteria. Il mare non ribolle più, per ora, dell’assalto disperato dei migranti: una ottima occasione per smetterla di improvvisare e proseguire nella direzione tracciata. Dice il premier: «C’è ancora molto lavoro da fare». Bene, l’importante è farlo.

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