Migranti, il futuro di Schengen è il futuro della stessa Europa

di Antonio Golini
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Martedì 26 Gennaio 2016, 23:51 - Ultimo aggiornamento: 27 Gennaio, 00:00
Non sono certo le migrazioni che possono risolvere le miserie del mondo, ma altrettanto certamente l’Unione Europea non può lasciar morire migliaia di persone, in navigazione o naufraghe in mare o in marcia al freddo lungo le interminabili rotte terrestre dei Balcani. Migranti e rifugiati costituiscono una sfida immane per la nostra Unione, quale mai si era avuta dai tempi della caduta del muro di Berlino, quando l’incontenibile flusso dei tedeschi dell’Est si rovesciò sul resto della Germania e anche nel resto d’Europa.

Sembrò allora dovere di tutti gli europei sostenere il cancelliere Kohl nella sua rapida, drastica, difficile e coraggiosa decisione di riunificazione della Germania e di stabilire un nuovo corso del marco. Una crisi che fu fronteggiata non soltanto dalla Germania, ma più o meno indirettamente anche da tutti gli altri Paesi dell’Unione, ben consapevoli dei “doveri” che comportava la prospettiva di conservare e potenziare il processo di unificazione.

Fu quindi una positiva decisione politica a fronteggiare l’enorme crisi che la fine del comunismo avrebbe potuto provocare all’Europa, positiva decisione che poi fu reiterata con l’allargamento dell’Unione a 24 e poi a 28 Paesi, quanti siamo adesso. E quindi furono risolutive in primo luogo la decisione politica, ma in secondo luogo anche la sostenibilità dello sforzo che la riunificazione e l’allargamento dell’Unione implicavano. Questo anche per l’attenzione dell’Europa tutta rivolta all’Est, attenzione che purtroppo mai c’è stata di pari intensità nei confronti del Mediterraneo. La crisi di oggi avviene infatti non più al centro dell’Europa, ma ai suoi margini, senza che l’Europa si sia sentita direttamente coinvolta.

 

E questo è un primo elemento di problematicità, cioè senza che si sia messo in atto un processo di estinzione o gestione della crisi che si è quindi largamente rovesciata su di noi. Si fa presto a dire che noi italiani avremmo dovuto incanalare le decine di migliaia di persone salvate – 170 mila nel 2014 e oltre 150 mila nel 2015 - verso campi (i cosiddetti hotspot) dove identificarli, distinguerli come profughi (e come tali proteggerli) o come migranti (e come tali espellerli). Persone che spesso non vogliono lasciarsi identificare e non vogliono subire il difficile, lungo e per noi costoso procedimento amministrativo che porta al riconoscimento di protezione internazionale o al non riconoscimento e quindi a una assai complessa e complicata espulsione.

L’Italia e la Grecia hanno invece fatto “miracoli” che andrebbero riconosciuti e che invece non trovano adeguati riconoscimento, riconoscenza e aiuto. E comunque non c’è modo di gestire questi esodi biblici attraverso le migrazioni, troppo affollate queste ultime e troppo affollate o fragili anche le nazioni dove vorrebbero insediarsi. Cancellare Schengen, significherebbe – come è stato già tante volte sottolineato - rinunciare al progetto europeo e a una significativa e necessaria evoluzione del concetto d’Europa e di cittadino europeo.

Per di più i singoli stati europei non potrebbero sopravvivere disuniti e piccoli nella competizione internazionale Più che mai in prospettiva, considerando che le più recenti previsioni delle Nazioni Unite prevedono da qui al 2050 per la popolazione europea tutta intera una diminuzione da 738 a 707 milioni (e un conseguente invitabile ulteriore invecchiamento), mentre per l’Africa è prevista una crescita, che peraltro mette già in conto una consistente emigrazione, della popolazione da 1 miliardo e 200 milioni a 2 miliardi e mezzo di persone, cioè 1 miliardo e 300 milioni in più in soli 34 anni, il che significherebbe dover creare all’incirca 850 milioni in più di posti di lavoro.

Una sfida di immane portata che coinvolge in primo luogo anche l’Unione europea, perché aiutare l’Africa a crescere intensamente e rapidamente è nell’interesse della stessa Europa.
Altro che smantellare Schengen. Il pianeta non può che favorire una processo di regionalizzazione di grande portata che possa portare alla costituzione di 7-10 grandissime Unioni ai cui esponenti, magari, venga affidato il Governo del mondo per le sue grandi questioni.
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