La guerra ai muri/ Ma l’Europa non pensi che sia finita

di Alessandro Campi
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Lunedì 3 Ottobre 2016, 00:27
La politica di allargamento e integrazione perseguita dall’Unione europea verso i Paesi rimasti per decenni sotto il giogo del totalitarismo sovietico, e che ha consentito a questi ultimi un ritorno alla libertà e alla democrazia rapido e senza i conflitti intestini che hanno insanguinato l’area balcanica all’indomani della dissoluzione della Jugoslavia, per anni è stata salutata come il frutto di una visione storicamente coraggiosa e lungimirante, dimostratasi capace di coniugare in modo virtuoso idealismo e spirito pragmatico. Nemmeno trent’anni dopo la caduta del comunismo, si fatica a dover ammettere che il sogno di un’Europa più grande, unita, solidale e forte rischia d’infrangersi proprio ai suoi confini orientali. Dove l’instaurazione formale del pluralismo politico e il raggiungimento di standard economici e di sviluppo sociale assai vicini a quelli della parte occidentale non sono bastati evidentemente a rimuovere i miasmi ideologici e le pulsioni illiberali che in quelle società si erano deposti nel corso di decenni caratterizzati dal monolitismo del potere, dalla repressione poliziesca di ogni dissenso sociale e da una corruzione capillare capace di sfibrarne il tessuto connettivo e il sentimento morale. Ma anche dalla soppressione forzata della loro eredità storica nazionale. In Paesi quali ad esempio l’Ungheria e la Polonia è come se il passato – rimosso a livello collettivo per paura di dover fare i conti con esso o più semplicemente neutralizzato dal benessere materiale favorito dai cospicui aiuti finanziari arrivati negli anni da Bruxelles – si fosse ripresentato con tutto il suo carico di tensioni storiche irrisolte e di violenze pronte a riesplodere. Con l’Europa che sembra essere divenuta, per le classi dirigenti e le opinioni pubbliche di quegli Stati, non più un blocco al quale ancorarsi condividendone valori civili e prospettive politiche, ma un Moloch oppressivo dal quale liberarsi per evitare di perdere la propria identità storico-culturale e la propria sovranità politica, esibite peraltro senza alcun filtro o ripensamento critico.
La parola magica per spiegare quest’inversione geopolitica e spirituale, pericolosamente disgregatrice dell’unità continentale, è “populismo”: una malattia politica, parente prossima del fascismo, che si pensa di poter guarire denunciandone pubblicamente la pericolosità. Oggi si gioisce per il mancato raggiungimento del quorum nel referendum ungherese, al quale guardavano con apprensione i vertici della Ue e le principali cancellerie. Il trionfo atteso del “no” alle politiche di redistribuzione dei migranti che Bruxelles vuole imporre ai suoi Stati membri (peraltro senza alcuna efficacia, sino ad ora) è stato vanificato sul piano legale dal fatto che si è recato alle urne meno del 50% degli aventi diritto. Ma il problema politico aperto da questa consultazione – e che va oltre la pretesa in gran parte irrealistica di blindare i propri confini e di perseguire un’autonoma politica di contrasto all’immigrazione clandestina e ai movimenti di popolazione – è destinato a restare aperto.
Bisognerebbe infatti ricordare che Orban, del quale sempre più spesso si denunciano le inclinazioni autoritarie, non è il classico demagogo venuto dal nulla che si limita a titillare la paura degli elettori. È un politico di provata esperienza, impostosi sulla scena pubblica ungherese già all’epoca della caduta del comunismo e a lungo schierato su posizioni liberali. Il fatto che negli ultimi anni abbia abbracciato, anche a fronte della crescita di un’estrema destra pericolosamente connotata in senso xenofobo e militarista, una dottrina più nazionalistica e conservatrice nulla toglie al fatto che certe sue battaglie e polemiche – ad esempio contro la deriva oligarchico-burocratica dell’Unione europea, contro l’incapacità di quest’ultima ad adottare misure in grado di frenare la crisi economica, contro una gestione dell’immigrazione in chiave puramente umanitaria ed emergenziale che non tiene conto dell’impatto sociale e culturale che questo fenomeno può determinare sulle società europee nel lungo periodo – abbiano avuto e abbiano un serio fondamento.
Il fatto che le sue prese di posizione – ispirate all’idea, tutt’altro che banale e peregrina, che l’unità dell’Europa non può realizzarsi a scapito delle nazioni storiche che la compongono e della loro identità collettiva – siano state spesso liquidate in modo sprezzante come una forma di populismo revanchista, da condannare in una chiave moralistica senza capirne le ragioni che in parte lo giustificano, spiega perché l’Europa – che ha deciso di rimuovere la “questione nazionale” dal suo orizzonte di problemi – oggi si trovi a vivere in una condizione d’ansia permanente ad ogni appuntamento elettorale.
Ieri il pericolo, provvisoriamente scampato, era l’Ungheria, tra qualche settimana sarà l’Austria, il prossimo anno la minaccia verrà dalla Francia e dalla Germania. E via continuando, sino a che non si capirà, come appunto dimostra la secessione strisciante degli Stati dell’Est dal disegno d’integrazione europea (ma come dovrebbe anche aver insegnato la Brexit), che la storia delle collettività – con il loro bagaglio di appartenenze, memorie e aspirazioni, ivi compresi pregiudizi e cattive abitudini – ha diritti che la politica deve rispettare. E quando li nega o li ritiene superati quella storia rischia di ripresentarsi sulla scena in forme drammatiche e parossistiche.
I muri contro gli stranieri, come quelli voluti da Orban, sono certamente odiosi. Ma la fuga dalla realtà e dal buon senso dell’Europa, che sull’immigrazione pensa di cavarsela affidandosi all’ipocrisia, ai buoni sentimenti o al sogno di un mondo nuovo fondato sulla pacifica convivenza delle culture o su una loro commistione che le porterà alla scomparsa, è semplicemente miope e priva di senso storico.
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