Libia, Pollicardo: «Colpi di mitra per farci paura, ci siamo liberati con un chiodo»

Libia, Pollicardo: «Colpi di mitra per farci paura, ci siamo liberati con un chiodo»
di Renato Pezzini
3 Minuti di Lettura
Martedì 8 Marzo 2016, 11:08
dal nostro inviato

MONTEROSSO - C'è una bottiglia di champagne per Gino Pollicardo. Il tappo salta davanti al chioschetto del lungomare di Monterosso, gli amici brindano al suo ritorno. Lui alza il calice, sorride: «Ma non c'è nessuna voglia di festeggiare» dice «Sono stati uccisi due miei compagni di lavoro, non riesco a pensare che a Salvatore, a Fausto, alle loro famiglie». È mezzogiorno, un sole tiepido illumina Monterosso, il mare è placido, Pollicardo stringe mani, abbraccia chi gli si fa incontro. Ma ha fretta di tornare a casa con la moglie e i due figli, ha bisogno della quiete del salotto dov'è in bella mostra la sua collezione di pipe «anche se non ho mai fumato in vita mia».

È riuscito a dormire stanotte?
«Poco, anche se sono stanchissimo. Però finalmente sono riuscito a passare una notte decente, civile. Sono stati sette mesi di emozioni fortissime. Ho condiviso tutto questo con la mia famiglia, con qualche amico».

Qual è stato il giorno peggiore in questi sette mesi?
«Il primo, quando ci hanno rapito. Ma non posso parlare di cosa è successo, non posso dare dettagli, c'è un'inchiesta in corso».

Ha mai perso la speranza di poter tornare libero?
«Non l'ho mai persa, no. Però hanno fatto di tutto per farcela perdere, specie quelle volte in cui ci hanno illuso che la liberazione era imminente».

Parlavate con i vostri sequestratori?
«Io non conosco una sola parola di arabo, e loro parlavano solo arabo. Ci hanno tolto tutto, ci hanno preso i telefoni, strappato i vestiti, ci hanno lasciato in mutande in una stanza buia, un secchio dove fare i bisogni, nient'altro».

Siete stati maltrattati?
«Ci hanno picchiato, eravamo trattati come scarti umani. Per spaventarci ogni tanto sparavano pure qualche colpo di mitra nella stanza in cui eravamo».

Gino Pollicardo lavora da una vita all'estero. In Polonia, in Russia, in Cile (dove ha conosciuto quella che adesso è sua moglie, Ema) in Libia fino al 2011, poi negli Emirati Arabi, poi di nuovo in Libia. Un po' come il protagonista di un romanzo di Primo Levi – La chiave a Stella – che girava il mondo grazie alla sua perizia di tecnico. E che amava il suo lavoro, proprio come lo ama Pollicardo «anche se mi tiene lontano da casa, due mesi fuori poi venti giorni in Italia, poi di nuovo fuori altri due mesi». Sempre con un filo di apprensione dentro, che da oggi diventa una paura che divora.

Tornerà in Libia?
«Non lo so, questa domanda mi andrà fatta fra sei mesi o un anno. Non adesso».

Voi avete capito chi erano i vostri aguzzini?
«Per me sono criminali, punto e basta. Non so se erano dell'Isis o delinquenti di altro tipo. Comunque erano criminali, visto quello che hanno fatto».

Quando avete capito che vi avrebbero liberati?
«Liberati? Nessuno ci ha liberati. Siamo scappati da soli, e dovrò ringraziare per tutta la vita Filippo (Calcagno, ndr) che con un chiodo, a forza di dai e dai, è riuscito a scardinare la porta della stanza in cui eravamo chiusi».

Cosa avete trovato fuori da quella stanza?
«Niente e nessuno. Dopo aver portato via i nostri due amici evidentemente se ne sono andati. Abbiamo chiesto aiuto a dei passanti, volevamo andare dalla polizia. L'hanno chiamata, dopo un po' è arrivata una pattuglia».

Quando sono stati portati via Failla e Piano?
«Noi abbiamo tenuto il conto dei giorni basandoci sulle preghiere chiamate dal muezzin la sera. Ma nessuno ricordava che questo è un anno bisestile e abbiamo saltato il 29 febbraio. Per cui quando hanno portato via Salvatore e Fausto credevamo che fosse il 2 marzo, invece era l'1. E tre giorni dopo ci siamo liberati».

Lei a un amico ha detto che la polizia libica vi ha detto che c'erano bande disposte a comprarvi dai vostri aguzzini per diecimila euro.
«Non so chi ve l'ha raccontato. Ma io di queste cose non posso parlare. E non voglio farlo. So solo che sono libero, ed è stato un miracolo. E so che due miei amici sono stati assassinati, e non ho più lacrime da versare».

Quando avete saputo che erano stati uccisi?
«Solo quando siamo arrivati a Ciampino».
© RIPRODUZIONE RISERVATA