Noi e l’ex colonia/ Le tre partite per recuperare la leadership

di Oscar Giannino
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Giovedì 27 Luglio 2017, 00:04
Tre grandi partite si concentrano nelle scelte che l’Italia è chiamata a fare rapidamente sulla Libia. La prima riguarda la conferma del ruolo che da tre anni Onu e Stati Uniti a più riprese hanno chiamato il nostro Paese a svolgere nella stabilizzazione libica. La seconda investe il nostro interesse nazionale, che è duplice: dalla Libia proviene il flusso di profughi che vede nel nostro Paese l’unico corridoio rimasto aperto per l’Europa, chiuso com’è quello balcanico; e in Libia abbiamo una storica presenza di imprese italiane a cominciare ovviamente dall’Eni, nelle infrastrutture energetiche che sono fondamentali per lo sviluppo libico come per l’equilibrio internazionale dei nostri approvvigionamenti. La terza riguarda il concerto europeo, e in primis l’equilibrio tra ruolo dell’Italia e quello della Francia. 
Anteponendo le conclusioni da trarre all’esame dei molteplici fattori in campo, prima l’Italia risponde positivamente e concretamente all’invito espresso ieri da Fajez al Serraj, premier che gode dell’appoggio Onu ma che a malapena purtroppo controlla solo parti di Tripoli, meglio è. 
La richiesta è di consentire e prevedere l’operatività nelle 12 miglia di acque territoriali libiche di mezzi della Marina Militare dell’Italia, al fine di sventare il traffico di carne umana nel Mediterraneo verso i nostri porti. E’ una richiesta che va accolta subito, semplicemente notificando il nostro adempimento alle autorità della Ue. A maggior ragione dopo la sentenza di ieri della Corte Europea di Giustizia, la cui conseguenza implicita è che l’Italia non possa emanare visti temporanei che obblighino gli altri Paesi europei a ottemperare alle intese europee in materia di redistribuzione dei profughi. 

È vero purtroppo: l’Italia per tre anni ha nicchiato, sul ruolo di leadership della coalizione occidentale nella stabilizzazione libica che Onu e USA ci hanno attribuito. Molti fattori spiegano la riluttanza italiana: eravamo alle prese con la nostra severa crisi economica, con il sofferto rispetto delle regole Ue sul deficit, e rifuggiamo tradizionalmente dall’uso di strumenti militari. Di cui Francia e Regno Unito hanno abbondato nel 2011 in Libia, con la conseguenza di renderla trincea avanzata dell’islamismo e del conflitto tra tribù. E’ stato un errore italiano, credere nei tempi lunghi della diplomazia? I fatti sembrano dire di sì. Ma è anche vero che il muscolarismo franco-britannico ha prodotto guai peggiori, da Londra e Parigi totalmente imprevisti. Ecco perché oggi le navi dell’Italia servono nelle acque libiche: nel rispetto di una richiesta di aiuto che è anche nel nostro interesse, come frontiera esposta dell’Europa a cui l’Europa sembra restare indifferente.
Diciamolo in chiaro. Macron ha realizzato un colpo a effetto, chiamando al Serraj e il generale Haftar a un incontro nel quale hanno dichiarato l’accordo a sospendere lo scontro tra milizie, e a condividere il percorso verso elezioni in Libia. Ma non è tutt’oro, quel che è sembrato luccicare così potentemente. La Francia ha dalla sua tre elementi di forza. Ha sempre condiviso le pretese di Haftar, forte in Cirenaica e sostenuto dall’Egitto, Emirati (non più come un tempo, dopo la riottura tra Arabia Saudita e Qatar) e Turchia. oltre che dalla Russia. Gli impianti di estrazione in Libia della francese Total sono per lo più nella parte orientale del Paese, riconducibile al controllo di Haftar (fino a un certo punto, anche Haftar nel Fezzan dipende invece dai variegati interessi delle tribù), cioè in quella stessa rea della Libia che all’Egitto di Al Sisi interessa “mettere in sicurezza”, e che alla Russia interessa sottrarre alla presenza militare di paesi Nato. In più la Francia ha propri contingenti militari, di terra e aerei, nell’Africa centroccidentale, a cominciare dal Mali. Contingenti che fanno però passare senza alcun intervento il traffico di carne umana, diretto prima in Libia e di lì in Italia.

Ma al contempo la Francia ha degli elementi di debolezza. Non può illudersi che l’incontro tra Serraj e Haftar sia la garanzia di una svolta. Sono oltre una cinquantina, le maggiori tribù e bande armate oggi attive in Libia. Gli uomini dell’intelligence dell’Italia ci lavorano sul campo da anni, e solo così è stato possibile riunirli al Viminale, poche settimane fa. Mentre Parigi ha mandato truppe speciali, osservatori e rifornimenti di armi solo guardando ad Haftar, all’interesse di preservare Total nel futuro energetico libico, e con occhio grato alle commesse militari – fregate Freem e caccia Raphale – venutegli in questi anni da Egitto ed Emirati. Infine, aggiungiamolo: nell’iniziativa di Macron pesa molto anche la necessità di recuperare a fini di consenso interno lo scontro frontale con i vertici militari francesi, che hanno portato per i tagli al bilancio alle clamorose dimissioni del capo degli Stati Maggiori delle Forze Armate, generale Pierre de Villiers. Cosa mai vista dai tempi delle tensioni tra autorità civili e militari francesi sulla questione dell’Oas e dell’Algeria indipendente. 

Purtroppo, la sfida non coordinata lanciata da Macron all’Italia pretende delle risposte. È deplorevole, che Parigi non abbia capito, neanche dopo la lezione degli amari eventi libici post 2011, che occorre cooperare in ambito Ue e Nato, non fare i primi della classe. Ma la miglior risposta italiana da parte del governo Gentiloni ha di fronte a sé una triplice scelta di strumenti. Mandare subito nostre navi e arei militari nelle acque libiche, assecondando la richiesta di Serraj e in linea con le risoluzioni Onu. Affermare con gli strumenti della diplomazia che l’Italia, che a differenza di altri ha riaperto da tempo la rappresentanza diplomatica in Libia, è legittima parte integrante del processo molto complesso da realizzare, per dare forza vera all’accordo di pacificazione dichiarato a parole tra Serraj e Haftar di fronte a Macron e al delegato Onu per la Libia. 
Infine, terzo capitolo ma strettamente collegato, non abbassare la testa nello scontro che Macron ha voluto aprire in queste ore: rimangiandosi l’accordo già sottoscritto dal suo predecessore perché Fincantieri possa avere il controllo dei cantieri francesi Stx, prima controllati dai sudcoreani. Se davvero la Francia è disposta a nazionalizzare i cantieri pur di non farli partecipare alla costruzione di un maggior gruppo europeo a guida italiana, bisognerà essere pronti a impugnare questo dietrofront in ogni sede europea. Da Parmalat e Bnl, dai marchi della moda a Cariparma fino a Vivendi in Tim, l’Italia da anni non ha mai eretto muri alle aziende francesi. Se Macron ora pensa di farlo asimmetricamente, bisogna mostrargli che sbaglia. Non per erigere muri anche noi. Ma per impedirgli di credere di poterlo fare da solo: a casa sua e nella Libia di domani.
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