Kamikaze-bambino fa strage in Turchia

di ​Alessandro Perissinotto
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Lunedì 22 Agosto 2016, 00:06
L’attentatore che ha ucciso (fino ad ora) 50 persone a un matrimonio in Turchia aveva tra i 12 e i 14 anni. Veniva da Aleppo? È possibile, in fondo Aleppo è a poco più di 100 chilometri da Gaziantep, la città nella quale è avvenuto l’attentato. Era fratello, cugino, amico di quei bimbi di Aleppo che muoiono sotto le bombe? È probabile. 

Per lui, riusciamo a provare la stessa pietà che abbiamo provato per gli altri? È difficile, è molto difficile. Per riuscirci, dimentichiamo gli altri 50 morti dell’attentato dell’altra sera e concentriamoci su una sola vittima: l’attentatore. Spostiamo l’orologio indietro e portiamolo a qualche ora prima dell’esplosione. Qualcuno, qualche adulto, un padre, un fratello maggiore ha preso da parte questo ragazzino e gli ha legato alla vita una cintura di esplosivo, gli ha mostrato come funzionava il detonatore e gli ha dato le ultime istruzioni sul modo in cui farsi saltare in aria. E poi, sicuramente, gli ha detto qualcosa sull’aldilà, gli ha detto che il suo dio lo ripagherà di quel sacrificio, che troverà un mondo infinitamente più ricco di quello che lascia qui, che troverà amici più sinceri, giochi più divertenti. E con quelle parole, che per qualcuno sono fede e religione, lo ha ucciso prima ancora che lui stesso si dilaniasse con l’esplosivo. Quello che si è infiltrato tra le centinaia di ospiti del matrimonio per seminare la morte, non era più un bambino, o un adolescente, o un uomo, era uno zombie: qualcuno gli aveva succhiato via la vita qualche ora o qualche giorno prima. Ed è forse per questo che riusciamo a provare pietà per lui, la stessa che sentiamo verso i bambini che muoiono per le bombe, la stessa che proviamo per i morti che lui stesso ha provocato; proviamo pietà per lui perché qualcuno lo ha ucciso e, da morto, lo ha mandato a uccidere.

Ma quello per il quale non possiamo provare alcuna pietà è l’uomo che lo ha reso un morto vivente. È inumano chiunque uccida un bambino, ma l’uomo che ha imbottito di esplosivo il piccolo kamikaze di Gaziantep è peggio che “inumano”, c’è un di più di orrore nell’uccidere i propri figli, c’è una mostruosità mitologica, c’è Crono che divora i propri figli. L’Isis dei tagliagola è anche l’Isis degli orchi. Da bambini, ci dicevano di non accettare caramelle dagli sconosciuti perché dietro quell’offerta gentile si poteva nascondere un orco, uno che i bambini li mangiava; gli orchi del fondamentalismo offrono caramelle al sapore di vita eterna, caramelle avvelenate. Sul web e anche su alcuni giornali pullulano i commenti di chi dice che il terrorismo islamico ce lo siamo meritato, che è una nemesi, che è la giusta vendetta per i crimini del nostro colonialismo (anche se non si capisce quali crimini coloniali avrebbero commesso i nigeriani sterminati da Boko Haram) e, anche volendo condividere questo semplicistico e sciagurato punto di vista, potremmo arrivare a capire l’odio verso i nostri figli, ma quello verso i loro stessi bambini ci rimane inaccessibile: la lucida determinazione di chi guarda negli occhi un cugino, un fratello, un figlio e lo induce a desiderare la propria e l’altrui morte, non rientra nelle nostre capacità di comprensione.

Eppure, basterebbe riprendere in mano un libro di storia, per ricordare che cent’anni fa, molti dei nostri ufficiali, durante la Grande Guerra, hanno mandato a morte certa migliaia di diciottenni in inutili e suicidi assalti alla baionetta: orchi con le mostrine e le stellette. E allora tutto rimanda al punto di partenza, alla logica della guerra che tutto permette; la guerra, il paradiso degli orchi; la guerra, che è combattuta sempre e soltanto contro i bambini, da qualunque parte essi si trovino, vittime persino quando sono carnefici. La guerra giustifica tutto, la guerra assolve tutti, ma torniamo all’altra sera, a quel dialogo tra l’adulto e il bambino, in una stanza; lì non c’è la guerra, lì non c’è il mondo, lì c’è solo un bambino, che sta per morire, e un adulto che consapevolmente lo manda alla morte, un adulto che non è una fazione in lotta, ma un individuo, una persona che ne guarda un’altra negli occhi mentre le ruba la vita. E allora vorresti che ci fosse un dio e un inferno, perché nessuna pena terrena basterà mai a punire quell’adulto, quello che l’altra sera ha allacciato la cintura esplosiva intorno alla vita del ragazzino; vorresti che ci fosse un dio giusto e vendicativo. E poi ti ricordi che quel bambino è morto proprio perché ha creduto in un dio giusto e vendicativo. E ti ricordi che molti dei diciottenni uccisi appena usciti dalla trincea sono morti perché credevano che dio stesse dalla loro parte. E ti ricordi di quando, senza troppa originalità, cantavi i versi di John Lennon: imagine there’s no heaven, it’s easy if you try; immagina non esista paradiso, è facile se provi. E ti chiedi fino a quando i bambini di tutte le età accetteranno in dono caramelle avvelenate al sapore di vita eterna o al sapore di denaro, di successo, di potere. Oggi è un kamikaze di dodici anni a sconvolgerci, ma quel ragazzino è così distante dai baby-killer delle nostre criminalità organizzate? Ed è distante dalle baby-prostitute dell’estremo oriente così come di casa nostra?

Non è solo il fondamentalismo islamico ad avere gli orchi, gli orchi sono ovunque e la guerra contro i bambini si combatte in ogni angolo del pianeta, ogni giorno, anche in quello che chiamiamo “tempo di pace”.
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