La nuova Jihad/La svolta Isis: trovare soldati tra i criminali

di Fabio Nicolucci
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Giovedì 29 Dicembre 2016, 00:05
Sono usi alla violenza privata e a comportamenti asociali. Si finanziano e vivono con espedienti illegali. Sono immersi in un anti-Stato e con esso intrattengono rapporti funzionali e organizzativi. Si sentono rifiutati dalla società e di questo fanno la propria identità. Sono terroristi o criminali? Fino ad Al-Qaeda la risposta a questa domanda sarebbe stata “criminali”, perché il profilo del terrorista tipo era molto diverso. Non si trattava di un escluso appartenente alle classi medio-basse, bensì medio-alte. Non di un individuo privo di propria capacità di orientamento socio-politico, bensì di mediamente colto, almeno dal punto di vista storico-religioso.
Ma oggi quella che ieri era un’alternativa - o terrorista o criminale - diviene con il terrorismo del’Isis una identificazione. Sono terroristi e criminali. Anzi criminali che diventano terroristi. Il caso di Anis Amri da questo punto di vista è in parte un’eccezione, perché anche il suo avere comportamenti asociali e violenti è relativamente recente, essendo in Europa da poco come migrante e non un mussulmano europeo di seconda generazione. 


Per il resto però, il suo profilo è coerente non con quello di Mohammed Atta – l’architetto egiziano colto e ben inserito in Germania, che per Al-Qaeda guidò uno degli aerei dell’11 settembre contro la Torre Nord del Trade World Center – bensì con quello di più recenti stragisti in nome dell’Isis. Per esempio con quello di Mesa Hodzic, il 25enne danese di origini bosniache che dopo un passato da spacciatore lo scorso 31 agosto a Copenaghen ha sparato ad un poliziotto durante un controllo, e che dopo la sua uccisione da parte della polizia è stato salutato dall’Isis con la consueta formula di “soldato”. 

Oppure a quello di Ali Almanasfi, un londinese di origini siriane che si volse al jihadismo dopo esser stato condannato per atti gravi di teppismo su un vecchietto. Oppure a quello di Abderrozak Benarabe, un danese di origini marocchine che - dopo un lungo passato di gangster e di spaccio e dopo 11 anni in prigione dei suoi 38 - avendo saputo del cancro che aveva colpito il suo amato fratello minore cercò un senso e una “redenzione” nel diventare prima jihadista e poi foreign fighter in Siria. Come per Omar Al-Husseini, che uccise due persone davanti una Sinagoga a Copenaghen nel febbraio del 2015, anche per Anis Amri il luogo decisivo di questa scelta sembra esser stata la prigione e i suoi 4 anni di carcere all’Ucciardone. Un luogo dove spesso iniziano questi tipi di processi di radicalizzazione, anche se il soggetto radicalizzato poi lo prosegue e completa – spesso a cura diretta o indiretta dell’Isis - nell’ambiente criminale da dove proviene. 
Del resto, al contrario di Al-Qaeda - organizzazione nata in ambienti benestanti per reazione ad una globalizzazione che non li vedeva inclusi e vincenti - l’Isis conosce così bene questo tipo di reclutamento e mondo perché esso è parte del proprio Dna. L’Isis nasce infatti nell’Iraq del dopo 2003 nel contatto tra generici jihadisti e feroci ex baathisti, esperti di lotta militare ma in cerca di un vestito religioso. Ed è proprio a Camp Bucca - la più grande prigione Usa in Iraq, conosciuta non a caso anche come “L’Accademia” da parte dei jihadisti - che Izzat Ibrahim Al-Duri (il Re di Fiori del mazzo di carte Usa dei più ricercati dopo l’intervento del 2003) si prende sotto la sua ala il giovane filo-jihadista Abu Bakr Al –Baghdadi e lo trasforma nel Califfo, facendo della sua sino ad allora sghangherata banda la Munazzama ad-Daula Al-Islamiya fi Iraq ua ash Shams (l’organizzazione dello Stato Islamico in Iraq e Levante, ndr). Già da allora la prigione fu levatrice, e le conoscenze militari e criminali degli ex baathisti abbastanza indistinguibili. Tutto questo ha indirizzato le azioni terroristiche in Europa e in occidente dello Stato Islamico oggi. Non per dire che la mente e l’ideologia della sua più alta dirigenza non siano – proprio come quelle di Al-Qaeda - dottrinariamente imbevute di Islam politico salafita e radicale. Perché lo sono, tanto da citare solo il Corano e i due più saggi tra le fonti (in arabo i “sahihaini”) come referenze, e per questo sbagliò Obama quando qualche anno fa definì l’Isis “non islamico”. Ma per dire che al contrario di Al-Qaeda il suo reclutamento si indirizza verso persone in crisi di identità e pronte già alla violenza, non per prima indottrinarle e poi arruolarle, bensì per usarle in una strategia di “lupi solitari” 2.0. A cui dunque si fornisce più una nuova identità sociale che delle armi. 
Del resto, i criminali le armi sanno come procurarsele, come usarle, e conoscono perfino come agire sotto pressione. Conoscono le tattiche della polizia, e reggono meglio di un neofita molto religioso la pressione degli eventi, oltre che l’oltrepassare la soglia della violenza contro altri simili. I criminali sanno pure come reperire le non molte risorse necessarie per compiere questo tipo di attentati in solitaria o non strutturati in cellule precostituite, visto che il 40% di questi attentati in Europa è stato finanziato attraverso piccole rapine o truffe e i tre quarti di essi sono costati meno di 9 mila euro. E se il bacino a cui si rivolgono i “reclutatori virtuali” - nel senso di “non prossimità” e non nel senso di “non efficaci” - dell’Isis è quello di giovani adusi a comportamenti criminali e/o violenti in cerca di identità nuove di zecca, non è un problema per l’Isis il fatto che le ottengano attraverso comportamenti non religiosi anche nell’autofinanziamento. E’ pronta infatti una “rilettura” del Corano in questo senso, come spiegava prima di essere abbattuto da un drone Usa nel 2011 Anuar al-Aulaki, affermando che “rubare agli infedeli” è una vera e propria “ranìma” (arabo per “bottino di guerra”,ndr). 
Rileggendo il versetto 69 della Sura 8 “Al-Anfal” (il Bottino) come «usufruite delle spoglie di guerra. Esse sono legali e pure», mentre la lettura dell’Islam non radicale è invece «usufruite di ciò che è spoglie di guerra legali e pure». Una piccola differenza nell’interpretazione, che porta ad una grande differenza nel suo uso politico. Anche su questo piano è dunque necessario ingaggiare la controffensiva al jihad globale, favorendo nelle carceri la frequentazione dei detenuti che lo chiedano con Imam non estremisti, che così magari sappiano dunque riconoscere ed indicare quando una conversione è solo una auspicata conversione e quando essa sia invece una radicalizzazione. 
Se dunque occorre analizzare la miscela esplosiva che costituisce la minaccia jihadista in Europa oggi, sembra che abbia ragione più Olivier Roy a dire che è più una “islamizzazione della violenza” che Gilles Kepel nel rilevare una “radicalizzazione della religione”. Che dunque la base principale del reagente jihadista sia l’alienazione sociale più che un credo religioso, per quanto estremo. Ma anche questa complessità della questione non è una buona notizia per noi. Perché per la sua soluzione ci invita a guardare non solo verso le desertiche e piagate lande mediorientali dello Stato Islamico, ma anche verso il nostro interno di società con molte contraddizioni. 
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