Parlandone troppo, stiamo facendo il gioco della jihad

di Franco Cardini
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Martedì 3 Gennaio 2017, 00:55
È ancora presto per qualunque discorso appena un po’ serio sul terribile attentato d’Istanbul: e quindi è difficile e comunque prematuro prendere sul serio le voci indiziarie che s’inseguono agenzia su agenzia, blog dietro blog. Si sta cercando una persona dai tratti, a quel che sembra, marcatamente centroasiatici: si è parlato prima di un uzbeko o di un kirghiso, quindi di un turcomongolo proveniente da una delle repubbliche meridionali dell’ex Urss, ora aderenti alla Confederazione degli Stati Indipendenti (Csi) formalmente presieduta dalla Russia ma nelle quali sono forti almeno da un quarto di secolo a questa parte - vale a dire appunto dalla dissoluzione dell’Unione Sovietica - le istanze “panturche” le quali andavano di moda al principio del secolo scorso e ora si sono riproposte. Ma quello centroasiatico è un Islam di tipo “sufico”, dove le istanze jihadiste attecchiscono poco: per giunta, i gruppi radicali, ispirati al salafismo o al “wahhabismo”, vi sono stati sempre molto osteggiati dai governi locali. 
Ma proprio questo può aver favorito una qualche diaspora di soggetti pericolosi verso la Turchia.

È poi emerso che potrebbe trattarsi di un uiguro: un’indicazione interessante. Gli uiguri, appartenenti anch’essi alla grande costellazione delle etnìe turcomongole dell’Asia centrale, sono musulmani sunniti che vivono prevalentemente nella regione del Xinjiang, cioè nell’area occidentale della Cina: sotto il profilo demografico raggiungono e forse superano i 10 milioni, per quanto nel 2009, in seguito a una serie di conati di rivolta, il governo della Repubblica popolare Cinese li sottopose a una dura repressione. Anche in seguito ad essa parecchie decine di migliaia di uiguri emigrarono in altri paesi dell’Asia e anche in Europa e nel continente americano. In Turchia sono circa 50.000 e in linea di massima appaiono discretamente integrati anche a causa dell’affinità sia religiosa sia etnolinguistica con i turchi veri e propri.
Ciò, d’altronde, non significa molto. Tanto in Cina quanto nelle repubbliche turcomongole centroasiatiche i gruppi musulmani radicali sono malvisti e perseguitati: ciò può aver favorito una diaspora sostenuta anche da un senso di frustrazione e di rivalsa che potrebbe non rendere poi straordinario che, tra loro, il jihadismo abbia potuto mietere degli adepti.

D’altra parte, è un diffuso ma errato pregiudizio che i terroristi agiscano sotto l’impulso di una fede religiosa o di un’ideologia fanatica. Sappiamo ormai bene che l’universo jihadista pullula di avventurieri e di mercenari: dagli ex soldati o ufficiali irakeni di Saddam Hussein che sono il nerbo dei quadri della “Santa Armata” del califfo al-Baghdadi fino ai foreign fighters reclutati in Occidente e che spesso, dalla microdelinquenza, passano alla milizia ideologico-guerriera diventando dei “soldati politici” del Daesh. Un uiguro isolato – e ciò non coinvolge certo l’intera comunità degli uiguri che vivono in Turchia – può ben essere stato il protagonista della strage del Night Club d’Istanbul, anche se in realtà fra le molte cose che al riguardo ignoriamo c’è anche quella che riguarda il numero degli attentatori. 

Comunque siano le cose, è evidente che il Daesh, lo “stato islamico” del califfo al-Baghdadi, è il principale indiziato come mandante del delitto: e si pensa a suoi militanti anche come esecutori. Non c’è nulla di sicuro al riguardo, intendiamoci: è vero che si dice vi sia stata una rivendicazione in tale senso, ma i canali attraverso i quali le rivendicazioni arrivano sono sempre poco sicuri e poi sappiamo bene come al riguardo il Daesh agisce “in franchising”, accettando di accollarsi la responsabilità di atti compiuti da suoi simpatizzanti o sedicenti tali ma senza averne presumibilmente il controllo. D’altronde, la natura dell’odioso attentato tenderebbe ad escluderne come responsabili gli avversari politici del presidente Erdoğan: né i gülenisti né i curdi del Pkk avrebbero alcun interesse politico o morale nell’accollarsi la responsabilità della morte di civili indifesi. Resta, per quanto solo ipoteticamente avanzata, la pista di un “delitto di mafia”, la vendetta della malavita ad esempio per un pizzo non pagato dai gestori del Night Club fatto oggetto dell’attentato: ma se ciò è verosimile trovare i testimoni è difficile. In questo caso nessuno parla: né i responsabili, né le loro vittime. 

Resta quindi valida l’ipotesi della responsabilità del Daesh: ma perché? L’ipotesi più accreditata sembra essere quella di un messaggio inviato al governo turco affinché desista dal cammino diplomatico recentemente imboccato di una sempre maggior vicinanza alla Russia, quindi indirettamente agli stessi Iran e Siria assadista: le tre forze che fino ad oggi insieme con i curdi si sono dimostrate le più efficaci avversarie del califfo, mentre la cosiddetta “coalizione internazionale” ha fatto molto poco, non è riuscita nemmeno a riconquistare Mosul e ha permesso perfino alle milizie jihadiste di ricomparire vicino a Palmira.

Siamo insomma nella nebbia: e i media internazionali non ce la raccontano giusta. Su un punto, soprattutto, una riflessione sarebbe salutare: è davvero saggio insistere tanto, al livello della diffusione delle notizie, sulle vere o supposte gesta del Daesh? Riflettiamo: l’autentico obiettivo del califfato è far notizia: e tutte le volte ch’esso mette a segno o sembra mettere a segno un attentato i media occidentali gli fanno da formidabile e gratuita cassa di risonanza. Non è, tutto ciò, fare il suo gioco? 

Prendiamo esempio una volta tanto dalla Russia. Ci siamo quasi dimenticati dell’aereo militare decollato da Soci sul Mar Nero e diretto in Siria, esploso poco dopo: aveva a bordo il fior fiore anche simbolico delle forze armate sovietiche, l’amatissima orchestra dell’Armata Rossa. Un colpo da maestro, se fosse stato il Daesh a farlo esplodere. Ma il governo e i servizi russi – e potete scommetterci che stanno lavorando intensamente a far piena luce sull’evento – hanno escluso quasi categoricamente l’ipotesi dell’attentato. In questo modo indagano tranquillamente, senza il fastidio dell’assalto di giornalisti e di troupes televisive, e il loro silenzio costituisce un formidabile argomento dissuasivo nei confronti di attentati futuri. A che pro farne se poi nessuno ne parla? Una bella lezione, purtroppo per ora da noi inascoltata. Meditate, gente, meditate…
 
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