Insidie per l’Italia, la fretta Usa e la doppiezza degli alleati

di Ennio Di Nolfo
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Sabato 5 Marzo 2016, 00:00
Nel momento in cui la crisi libica si fa più acuta e gli attori che vi sono impegnati procedono con passo incerto verso la ricerca di una soluzione, diventa necessario ricordare in qual modo tutto ciò abbia avuto inizio. La prime manifestazioni contro il regime di Gheddafi iniziarono (come tutta la “primavera araba”) nel febbraio 2011. In pochi giorni le forze ribelli sloggiarono le autorità locali da Bengasi e si diressero verso Tripoli, dove il Colonnello cercava di raccogliere forze sufficienti per resistere. 

Dato che i combattimenti mettevano in gioco la popolazione civile, il Consiglio di Sicurezza dell’Onu prese a occuparsene varando una no fly zone teoricamente diretta a impedire che questa eventualità si trasformasse in un eccidio. Così la questione diventava un caso internazionale e, il 19 marzo, i francesi lanciavano un attacco missilistico contro le forze di Gheddafi mentre poco dopo missili britannici e americani venivano diretti contro obiettivi di tutta la Libia. In breve Gheddafi fu travolto e il 20 ottobre egli venne catturato e ucciso con ferocia.

Del suo regime non rimaneva nulla, poiché dopo di allora la Libia entrava in una fase di dissoluzione interna, contrassegnata dagli scontri tra i vari potentati e le varie tribù, nessuno dei quali riusciva a costituire un potere credibile. 

In quei giorni nessuno pensò che quando si affronta un’operazione chirurgica è necessario anche esser pronti a rimarginare le ferite. Fuor di metafora, nessuno pensò o disse che cosa si doveva fare della Libia una volta cacciato il dittatore. Il solo tema unificante era indicato dal controllo delle risorse petrolifere libiche, cioè il controllo dei pozzi produttivi e delle via d’accesso verso i porti o i punti dove sono situati i terminali dell’esportazione petrolifera libica. Non occorre l’acume di un grande statista per comprendere che questo modo di comportarsi era suicida, poiché esso non avrebbe salvato la Libia e, al contrario, l’avrebbe trascinata verso un avvenire sconosciuto.

Oggi, alla questione petrolifera si è aggiunto un altro tema unificante: la paura provocata dall’insediamento di formazioni dell’Isis a Sirte e in altre parti del Paese, dove esse hanno rapidamente fatto mostra non solo della loro ferocia ma soprattutto del pericolo che rappresentano per tutto il Mediterraneo: per l’Italia ma, più ancora, per la libertà marittima di transito verso il canale di Suez. Grazie a un risveglio improvviso, francesi, britannici, americani e, con una certa misura, italiani hanno imboccato la via delle missioni segrete, affidate a gruppi di specialisti della guerriglie e incaricati di salvare il petrolio salvabile. 

Ma il rimedio è subito apparso inadeguato alla situazione; di conseguenza è divenuto d’attualità il tema di un intervento militare più consistente, affidato a forze armate sufficienti per affrontare gli islamisti e, possibilmente, sconfiggerli. Ma siccome l’Italia rispetto a tutto questo, per motivazioni storiche remote e per ragioni pratiche contingenti, è il paese forse più interessato a ciò che avviene a breve distanza dal suo territorio, compito dell’Italia dovrebbe essere non solo quello onorifico di guidare l’offensiva di terra ma anche quello di fornire alcune migliaia di uomini per questa offensiva. L’ambasciatore degli Stati Uniti a Roma, Phillips, è giunto a formulare l’ipotesi di un corpo di spedizioni composto da 5000 uomini. 

Si tratta di un’ipotesi sensata e credibile? Basta riflettere brevemente sulle ripercussioni dell’opinione pubblica qualora vi fossero vittime umane per immaginare quali e quante reazioni si potrebbero avere se uomini del fantasticato corpo di spedizione avessero questa sorte. E basta chiedersi quale governo e quale forza politica sarebbe in grado di resistere all’ondata di proteste che dilagherebbero in tutto il Paese.

Ciò che del resto affiora è che da tempo Francia e Gran Bretagna sono al lavoro per tutelare i loro interessi libici. Quali sono le ragioni in virtù delle quali un consistente corpo di spedizione italiano dovrebbe andare a far loro da scudo? Forse qualcuno potrebbe immaginare che al confine della Libia esiste un poderoso esercito, quello egiziano, che, a certe condizioni potrebbe agire con maggiore efficacia. Infatti è lecito chiedersi perché l’Italia debba affrontare sacrifici soggettivamente enormi per rendere operative decisioni dell’Onu che nemmeno il neo-costituito, ma non accettato, governo insediato a Tobruk è in grado di affrontare. Se esistono interessi pratici da tutelare, questo dovrebbe esser fatto con una seria valutazione del rapporto tra i costi e i benefici di un’operazione del genere.

 
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