L’Islam in Israele/ La saldatura Hamas-Isis che preoccupa l’Occidente

di Fabio Nicolucci
4 Minuti di Lettura
Sabato 15 Luglio 2017, 00:05
Dopo l’attacco terrorista a Gerusalemme la mattina, nel pomeriggio di ieri la spirale di morte è continuata ad Hurghada, una rinomata località balneare egiziana sul Mar Rosso. Ma seppure simili nella tempistica e nei morti causati, i due attentati sono molto diversi nelle dinamiche che rischiano di innescare. Mentre infatti quello in Egitto ha il suo effetto di morte nel qui e ora, e sembra un ennesimo anello della catena di azioni e reazioni nella guerra tra il regime di Al-Sisi e il jihadismo egiziano con base prevalentemente nel Sinai, quello di Gerusalemme sembra un salto di qualità del terrorismo palestinese conosciuto come “terza intifada” o “Intifada dei coltelli”. 

Innanzitutto nella storia personale degli attentatori. I tre terroristi sono infatti arabi israeliani e provengono da una cittadina del nord di Israele, Umm al Fahm. Non sono palestinesi della Cisgiordania né di Gaza, e neppure sono, come è stato ultimamente negli attacchi dell’Intifada dei coltelli e delle auto, di Gerusalemme est. Vengono invece da una cittadina di 50 mila abitanti nel cosiddetto “triangolo arabo” della Galilea, abitato per lo più da arabi lì rimasti dopo la proclamazione dello Stato d’Israele, e diventati da allora arabi israeliani. 
Storicamente gli arabi israeliani sono sempre stati gelosi di questa loro specificità, a cui non hanno mai voluto o dovuto rinunciare dagli anni anche tumultuosi della prima Intifada del 1987. Ed anche se Umm al Fahm è da almeno tre decenni la capitale di un radicale movimento islamico, questo movimento non ha mai scelto di rinnegare con il terrorismo lo Stato di Israele.

La lotta degli arabi israeliani è sempre stata per nuovi diritti, mai contro l’esistenza di Israele come quella dei cugini palestinesi di Hamas. Tanto che ultimamente proprio in questa zona alle ultime elezioni politiche del 2015 aveva raccolto molti voti la Lista Unitaria, giunta terza alla Knesset (il Parlamento israeliano, ndr.) con ben 13 deputati e più del 10% dei voti. 
Questo attentato è un colpo molto serio a quel progetto politico, e la vittoria della sezione più estremista del movimento islamico del nord su quella del sud, che aveva invece partecipato alla formazione del nuovo partito. Con l’obiettivo di “islamizzare” la lotta palestinese e schiacciare il pluralismo israeliano. Finalità che traspare non tanto dal crudele accidente che uno dei due poliziotti uccisi fosse un druso, figlio di un ex deputato non ebreo, dunque a suo modo doppiamente simbolo di un Israele anche etnicamente pluralista. Ma soprattutto dalle modalità di questo terribile attacco. Non è infatti casuale la scelta del giorno di venerdì, il giorno della preghiera dei mussulmani. Né lo è soprattutto il luogo, terzo luogo sacro all’islam ma non luogo specifico per la lotta palestinese nazionalista. 

Questo è infatti solo il secondo attentato dei molti a Gerusalemme est compiuto nella Haram al Sharif, cioè la spianata del Tempio, luogo dove si trova la roccia da cui Maometto spiccò il volo per il Paradiso e la Moschea Al-Aqsa, ma anche luogo dove si trovava il Sancta Sanctorum del Tempio maggiore degli ebrei, di cui rimane solo il Muro Occidentale dopo la distruzione voluta dai romani. Incidentalmente, un luogo caro a tutte e due le religioni ma recentemente oggetto di una “rilettura” – e ora si può capire forse l’impatto comunque criminogeno di strumentalizzazioni storiche in luoghi siffatti – da parte dell’Unesco che ne riconosceva il solo carattere mussulmano. 

La scelta del giorno e del luogo insieme è dunque in sé un proclama. E probabilmente lo scopo era proprio quello di provocare la prima chiusura integrale del luogo dal 1990, una decisione ieri obbligata. Ma una decisione che ha provocato inevitabilmente la sensibilità di milioni di credenti mussulmani, ed ha già avuto il corredo di un attentato nel pomeriggio con un bottiglia molotov. Il disegno degli attentatori, e quello delle parole del portavoce di Hamas, che ha definito l’attentato una «naturale reazione alla profanazione della Moschea Al-Aqsa» è infatti di declinare il terrorismo palestinese, fallito politicamente, in termini religiosi. Così da suscitare una prossima Intifada su basi non più nazionali ma religiose e magari regionali. 
Lo testimoniano anche i video dell’attentato, che mostrano come gli attentatori, dopo essere stati immobilizzati dalle forze di sicurezza israeliane, abbiano poi fatto di tutto per essere uccisi come “martiri” (shahid). E così venivano definiti ancora ieri da Al Jazira nei titoli in arabo dedicati all’attentato. La disgregazione del movimento nazionale palestinese, tanto temuta dai vertici dei servizi di sicurezza israeliani, è dunque molto avanzata. 

Ma se il conflitto da nazionale diviene identitario e religioso è una tragedia che si sommerà ad altre e costerà cara, in termini politici e di vite umane, non solo ad Israele ma anche ai palestinesi. 
© RIPRODUZIONE RISERVATA