Guerra alla Jihad/ Una vendetta per l’impegno di Ankara

di Alessandro Orsini
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Mercoledì 13 Gennaio 2016, 01:01
La Turchia è uno dei Paesi meno impegnati nella lotta contro l’Isis eppure è uno dei più colpiti dai suoi attentati terroristici. Ciò accade perché la Turchia combatte poco e bene, a differenza degli Stati Uniti e della Russia che combattono molto e male.

Una delle ragioni del successo dello Stato Islamico sono stati i cosiddetti “foreign fighters” che giungevano in Siria dalla Turchia, passando da importanti città di frontiera, come Tal Abyad e Ayn Issa. Fino a quando la Turchia è rimasta a guardare, l’Isis non ha avuto motivi particolari di risentimento verso il suo possente vicino, ma, il 26 agosto 2015, il governo turco ha annunciato l’accordo di adesione alla coalizione americana, dando avvio a una campagna anti-Isis che, il 20 novembre, ha ricevuto le lodi del vice segretario di Stato americano, Antony Blinken, il quale ha dichiarato che: «La Turchia ha accresciuto i fermi di polizia, gli arresti e i procedimenti giudiziari di sospetti terroristi; ha migliorato lo scambio di informazioni e ha preso misure importanti per migliorare la sicurezza dei suoi confini».
 
I numeri in favore dell’impegno turco parlano chiaro: alla fine di novembre 2015, il governo guidato da Davutoglu maneggiava una lista di 26.600 stranieri da respingere alla frontiera, che si aggiungevano alle 2.600 espulsioni e ai 1.000 arresti condotti in operazioni di polizia che, in alcuni casi, si sono concluse con l’uccisione dei jihadisti. Altrettanto importante è stata la decisione di consentire agli aerei americani di decollare dalle basi della Turchia che, peraltro, ha bombardato direttamente le postazioni dell’Isis più vicine ai suoi confini.

Riducendo il flusso dei foreign fighters, la Turchia ha favorito, indirettamente, la battaglia dei curdi per conquistare e mantenere le città di Tal Abyad e Ayn Issa, più volte cadute nelle mani dell’Isis. Il tutto grazie alla sua posizione strategica di confine che gli consente di ottenere tanto, facendo poco. E siccome in guerra ciò che si ottiene è più importante di ciò che si fa, la Turchia è molto odiata dai jihadisti di al Baghdadi, il quale, nel 2015, oltre ad avere perso il 14% del suo territorio, ha visto ridursi la preziosa risorsa dei foreign fighters.

La strategia di Obama, basata sulla distruzione lenta, ma costante, delle risorse dell’Isis, avrebbe minori probabilità di successo senza l’aiuto del governo turco che, in questo momento, è ben contento di compiacere l’alleato americano, visto che, il 25 novembre, Putin ha ordinato di installare il sofisticato sistema missilistico S-400 presso la base aerea di Hemeimeem, vicino al confine con la Turchia, che aveva abbattuto un aereo russo pochi giorni prima. Se un aereo turco venisse abbattuto dai russi, Erdogan chiederebbe aiuto agli americani e, tra alleati, si riceve in misura proporzionale a ciò che si dà.

In questo momento, dare contro l’Isis è dare a Obama, il quale deve fronteggiare le critiche di coloro che gli contestano di non voler inviare truppe americane a combattere in Siria e in Iraq. Obama è convinto che la presenza dei soldati americani infuocherebbe il Medio Oriente, facendo il gioco di al Baghdadi, e apprezza il rinnovato impegno turco, che rende più efficace la sua guerra a “fuoco lento”.

Tutto ciò spiega non soltanto l’attentato che la Turchia ha subito ieri a Istanbul, ma anche quello dell’11 ottobre 2015 alla stazione dei treni di Ankara, il più sanguinoso della sua storia, dove due bombe hanno causato 102 morti e oltre 400 feriti.

Dal momento che la logica di ragionamento dell’Isis si riassume nella formula «Noi colpiamo coloro che ci colpiscono», gli attentati di Ankara e di Istanbul dimostrano che l’azione anti-Isis della Turchia è stata efficace. Ne ricavo che la propaganda di Putin, secondo cui la Turchia favorirebbe l’Isis, ha sempre meno prove da esibire.

© RIPRODUZIONE RISERVATA
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