Grecia, così la Troika ha fallito la missione

di Francesco Grillo
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Domenica 15 Febbraio 2015, 23:36 - Ultimo aggiornamento: 16 Febbraio, 11:55
Su almeno una cosa Yanis Varoufakis e Angela Merkel sono d’accordo. Il problema più grosso di un debito pubblico elevato non è solo che può diventare la fornace nella quale bruciare qualsiasi tentativo di crescita per altri vent’anni. Ma che esso contiene il rischio di un enorme trasferimento di risorse tra chi ha prodotto il debito e chi non ne ha colpa: un’ingiustizia che manderebbe in frantumi le ragioni stesse di un qualsiasi patto tra popoli e categorie sociali. È sulla inaccettabilità di questa ingiustizia che va costruita, a partire da subito, una soluzione al problema del governo dell’euro che non sia solo un compromesso da rinegoziare alla prossima emergenza. Quando l’indebitamento di uno Stato supera la ricchezza che in quello Stato si produce in un anno – ha sostenuto qualche tempo fa sul suo blog l’economista greco diventato ministro - l’errore più grave che si può commettere è che esso venga ripagato da chi non l’ha prodotto. Che i figli paghino per le colpe dei padri. Che le persone oneste sopportino con le tasse future l’onere delle corruzioni passate. Questo sbaglio sarebbe letale.



Non solo per la coesione di una società. Ma anche dal punto di vista dell’efficienza del sistema economico e, dunque, della sua stessa capacità di onorare il debito.



È evidente, infatti, che la riallocazione di risorse attraverso le tasse da categorie produttive a quelle che non lo sono più o che, addirittura, sono abituate a distruggere valore, uccide definitivamente un’economia in sofferenza. Sono parole simili a quelle che usa la Cancelliera tedesca quando qualcuno agita il fantasma di mutualizzare i debiti degli Stati: i miei elettori non accetteranno mai di pagare i debiti degli italiani o dei greci.



Tuttavia il principio è lo stesso: se non riusciamo a distinguere le responsabilità, perderemo l’occasione di usare la crisi come occasione per cambiare. In questo senso la colpa più grande dell’Europa è quella di aver affrontato la crisi discutendo solo di valori assoluti della spesa pubblica e mai della sua composizione. Del resto, per la Grecia il fallimento della Troika è scritto proprio nei numeri del debito pubblico: quando il Paese è andato sotto la tutela del Fondo Monetario Internazionale, della Commissione e della Banca Centrale Europea il rapporto tra debito pubblico e PIL era al 130%.



Oggi dopo cinque anni il rapporto è del 175% ed il debito è aumentato persino più di quanto non si sia ridotto il PIL (nonostante che sia già tecnicamente avvenuto un default con l’imposizione ai creditori privati un dimezzamento del valore a scadenza dei titoli). Ciò equivale a dire che il paziente sta peggio di quando è entrato nel reparto di terapia intensiva e ciò non può non sollevare una responsabilità del medico, che si affianca a quella del paziente prima del ricovero. Una responsabilità nei confronti dei cittadini greci, specialmente quelli più giovani che non hanno avuto modo di evadere il fisco o truccare i conti. Ma anche dei creditori ai quali tassi di interesse sul mercato secondario sempre più elevati non bastano per compensare la perdita sul capitale iniziale.



E allora come curare la malattia evitando di colpire chi è ancora sano? L’idea dei greci è quella di sostituire - con uno swap - i titoli del debito pubblico con bond con interessi legati al tasso di crescita dell’economia, nonché di rimpiazzare la Troika con l’Oecd. La prima idea aiuterebbe a riallineare gli interessi dei creditori con quelli dei debitori; la seconda sostituisce banchieri ossessionati dai modelli macro economici con un consulente abituato alle grandezze micro e che sa quanto diversa può essere la prestazione di un euro di spesa pubblica a seconda di dove è speso e come. Possono essere – aldilà delle boutade elettorali di Tsipras - i presupposti per cambiamenti strutturali che sono di trasferimento di risorse – a parità di un target di avanzo primario - a settori a più alta produttività. In un Paese come l’Italia basterebbero poche misure, in fin dei conti.



Rompere il tabù dei diritti acquisiti cessando di pagare ai pensionati - al di sopra di una certa soglia - la differenza tra assegni previdenziali e contributi effettivamente versati e usando integralmente i risparmi per aumentare i finanziamenti ad asili, scuole e università (riservando parte delle risorse aggiuntive a premiare i dirigenti e gli insegnanti più bravi, come sta facendo il ministro dell’Istruzione Stefania Giannini). Massimizzare la confisca di patrimoni accumulati da corrotti e corruttori attraverso la concessione di forti sconti di pena per chi si pente (proprio come succede per la mafia e propone Raffaele Cantone), destinando interamente il ricavato all’abbattimento del debito pubblico. Così da alleggerire la zavorra che ci schiaccia facendo pagare l’operazione a chi ci ha affossato, senza indulgere in atteggiamenti vendicativi che non hanno nulla di pragmatico.



L’effetto combinato sarebbe una riduzione della pressione fiscale che è il vero stimolo di cui l’economia italiana ha bisogno. Il trucco per rendere una simile ristrutturazione politicamente accettabile è quello di legare – in maniera evidente a tutti – il risparmio che si fa in un’area di privilegio, ad un investimento in un settore a più forte potenziale di crescita. Una ricetta che centri sia l’obiettivo tedesco di ripagare i debiti, che quello greco di tenere insieme una società che l’Europa rischia di distruggere, distruggendo se stessa. Che superi la guerra di trincea tra i custodi dell’austerità e quelli che pretendono di resuscitare Keynes che sarebbe il primo a far rilevare che c’è qualche differenza tra gli Stati Uniti degli anni 30 e l’Europa cento anni dopo. Visionaria e pragmatica. Né di sinistra, né di destra.



Una terza via che parta dalla consapevolezza che si esce dalla crisi non rimpicciolendo in maniera lineare (come pretendeva Monti) ma cambiando in maniera radicale. È questo il terreno sul quale si misurerà la capacità dei leader più giovani di rilanciare un progetto europeo bello ma logorato dalla paura di chi vede diminuire un benessere che riteneva acquisito.