L’allarme dalla Gb/ Gli errori Ue sui migranti all’origine della Brexit

di Carlo Nordio
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Sabato 2 Luglio 2016, 00:22
L’uscita della Gran Bretagna dall’Unione Europea sarà stata una disgrazia, ma come tutte le disgrazie può avere qualche effetto positivo: «Le bon usage des maladies», lo chiamava Pascal. E gli effetti sono due. Il primo si è in parte già visto: un inizio di flessibilità nel soccorso alle banche, che senza infrangere le ferree regole a suo tempo volute dalla Germania (ma da noi inavvedutamente accettate) dà un po’ di respiro al nostro asfittico sistema creditizio. È infatti possibile, e auspicabile, che il “warning” spedito dall’elettorato inglese venga recepito a Bruxelles e a Berlino per quello che è: un avvertimento a cambiare rotta sulla rigidità dei vincoli finanziari in genere e di bilancio in specie.

Il secondo effetto, forse più importante, è ancor più collegato alle motivazioni che hanno indotto i sudditi di Sua Maestà a ignorare i vecchi auspici di Churchill e i recenti allarmi di Cameron. Queste motivazioni, come è emerso dall’analisi e dalla geografia del voto, poggiano sulla paura di un’immigrazione massiccia e incontrollata. I londinesi dell’East End, l’hanno riassunta così: «Gli stranieri ci rubano il posto di lavoro, e il letto nell’ospedale». I ricchi di Belgravia e Mayfair questo problema lo sentono poco. Ma nei quartieri popolari e nelle contee periferiche è stato determinante, tanto da travolgere non solo il primo ministro, ma anche il leader dell’opposizione; mentre una parte consistente del Paese, impaurita e delusa, vorrebbe tornare a votare, e la Scozia prospetta la secessione.


 

Una crisi simile non si era mai vista nel Regno Unito dai tempi di William Pitt, che morì sospirando: «Povero Paese mio!». Espressione che molti britannici avranno, in questi giorni, condiviso. L’Unione Europea commetterebbe dunque un errore fatale se non avvertisse i disagi e i timori che hanno allarmato gli inglesi e stanno scuotendo gli equilibri politici dei Paesi che la compongono. Perché la Brexit non è che il culmine di un processo iniziato in due nazioni tradizionalmente tolleranti e ospitali: Danimarca e Svezia sono state le prime a chiudere le frontiere. Il contagio si è poi esteso a Calais, e poi in Ungheria, Slovenia via via fino ai nostri confini del Brennero. Dopo le elezioni austriache, mezzo mondo si è rallegrato della vittoria del verde Van der Bellen: è stato un puerile wishing thinking, che trascurava il tutt’altro che beneaugurante 49,5 per cento raccolto dallo xenofobo Hofer. Peraltro oggi le elezioni sono state annullate e non sappiamo quale sarà il nuovo risultato.

Non ci vuol molto a comprendere che, se le cose non cambiano, tra poco avremo qualche altra diserzione. Ammonita da questo salutare avvertimento britannico, l’Europa dovrà dunque affrontare l’immigrazione liberandosi dai pregiudizi del politicamente corretto, coniugando la solidarietà con la gestione razionale di un fenomeno finora incontrollato, ma perfettamente controllabile. Questo impone una serie di aiuti ai Paesi africani e la loro collaborazione. Ma richiede anche una polizia di frontiera comune, disciplinata da norme chiare applicate con rigore, con l’addestramento dei militari, che sappiano distinguere il soccorso in mare dal trasferimento indiscriminato sulle nostre coste. Australia e Nuova Zelanda lo fanno da tempo.

E infine presuppone una esplicita e condivisa risposta alle due domande fondamentali.
Primo: quanti migranti siamo, e saremo, in grado di accogliere? Secondo: come e dove andranno distribuiti, assistiti e mantenuti? Se l’Unione Europea saprà interpretare correttamente lo stato d’animo dei suoi cittadini, e agirà di conseguenza, unita e determinata, avrà tratto buon profitto dalla lezione inglese. Se continuerà a baloccarsi con le formule metafisiche di un solidarismo ipocrita, che in realtà chiude le frontiere interne lasciando i Paesi rivieraschi con il cerino in mano, allora si sgretolerà in poco tempo. E ognuno di noi potrà ripetere con il moribondo William Pitt: «Povero Paese mio!”.
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