Gentiloni: «C’è il rischio che l’Isis ora si sposti in Libia»

Gentiloni: «C’è il rischio che l’Isis ora si sposti in Libia»
di Marco Ventura
6 Minuti di Lettura
Lunedì 1 Febbraio 2016, 23:57 - Ultimo aggiornamento: 2 Febbraio, 18:47
Si ritrovano oggi a Roma i rappresentanti di 23 Paesi della coalizione anti-Isis. Padrone di casa il ministro degli Esteri, Paolo Gentiloni, che ieri ha fatto il punto col segretario di Stato americano, John Kerry. In dicembre gli Stati Uniti avevano chiesto all’Italia di partecipare ai raid aerei. 

Perché c’è ritrosia da parte italiana? 
«Nessuna ritrosia. L’Italia è uno dei 5 o 6 paesi al mondo più impegnati nel contrasto a Daesh. Dopo Londra e Parigi, il vertice di questo gruppo ristretto si riunisce a Roma per rilanciare l’azione della coalizione».

Come va la campagna anti-Isis?
«Nel 2015 è stato sottratto a Daesh il 40 per cento del suo territorio in Iraq e il 20 per cento in Siria. Quasi interrotte le linee di comunicazione tra Raqqa e Mosul. Vedremo in quale misura potremo mettere all’ordine del giorno nei prossimi mesi la liberazione di Mosul. C’è anche un tema più politico: il sostegno al governo iracheno e al suo impegno per stabilizzare le zone liberate. Alcune realtà, come Tikrit, sono più incoraggianti. Altre, come Ramadi, ancora critiche. Non basta sconfiggere Daesh militarmente in Iraq. Bisogna collaborare col governo perché alla liberazione corrisponda una capacità di stabilizzare e gestire le città in modo inclusivo, soprattutto verso le comunità sunnite senza le quali le tensioni settarie rischierebbero di pregiudicare tutto». 

 

Qual è il nostro ruolo?
«Siamo leader nella formazione delle forze di polizia irachene che devono riprendere il controllo delle aree liberate. Cerchiamo di farlo coordinando anche lo sforzo di altri Paesi. Abbiamo addestrato oltre 2mila peshmerga curdi, e continuiamo a farlo».

I jihadisti si stanno spostando in Libia?
«C’è in effetti il rischio che le sconfitte militari in Iraq, e in parte anche in Siria, portino alcuni combattenti di Daesh a spostarsi in Libia. Dobbiamo prendere questo rischio in considerazione». 

L’Italia ha annunciato che manderà 450 uomini a difendere la Diga di Mosul. Quando partiranno?
«L’avvio delle opere di manutenzione è previsto per la primavera inoltrata. Dureranno molto a lungo, perciò richiedono una presenza di forze italiane con compiti non di combattimento ma di difesa. Si sta definendo l’incarico alle ditte, e la modalità della nostra presenza». 

C’è chi sostiene che l’Isis può essere spazzato via in poco tempo. Altri, invece, che dovremmo lasciar fare agli altri questa guerra. Noi come la pensiamo?
«Un conto sono le forze speciali, gli addestratori, i mezzi aerei, in cui sono impegnati tutti i principali paesi con livelli diversi. Altro è la presenza di truppe sul terreno, che al momento non mi pare considerata da nessuno. In particolare in Siria, la situazione è molto complessa, perciò giustamente Kerry ha ricordato che la soluzione può esser solo diplomatica, con l’avvio di una transizione che porti a superare il regime di Assad. Bisogna fare presto, ogni settimana che passa si aggrava la catastrofe umanitaria».

Il governo di unità nazionale in Libia non è ancora legittimato da un voto del Parlamento. I tempi stringono per il nostro intervento? 
«I tempi stringono per la stabilizzazione della Libia, ma non abbiamo nessuna fretta interventista, né noi né la comunità internazionale. L’urgenza è quella di definire la composizione del nuovo governo perché abbia l’appoggio del Parlamento e sia possibile il calcio d’inizio della stabilizzazione. Il Consiglio presidenziale in questi giorni è chiamato a definire una nuova proposta di esecutivo sulla quale lunedì con ogni probabilità si esprimerà il Parlamento. La decisione spetta ai libici. Sono giornate decisive e io rinnovo il mio appello a tutte le parti libiche perché anzitutto nell’interesse del popolo libico, che ha potenzialità e risorse straordinarie, si trovi l’intesa. Sapendo che sulla base di questa intesa la comunità internazionale è pronta poi a dare una mano rispondendo alle richieste che il governo ci farà».

La Francia ha messo in guardia contro i rischi d’infiltrazione dei jihadisti sui barconi, a Lampedusa…
«Da due o tre anni abbiamo a che fare con flussi migratori eccezionali, forse molti altri Paesi europei li hanno scoperti più di recente. Da sempre siamo consapevoli dei rischi di infiltrazioni, ma a questa consapevolezza teorica non corrispondono al momento allarmi fondati su informazioni specifiche. Quindi, grande vigilanza ma nessun allarmismo. L’Europa, se non trova la forza per condividere una risposta ai flussi migratori, rischia di perdere sé stessa. Continuando a chiudere gli occhi sulle caratteristiche dei flussi migratori e sulla necessità di una risposta comune, i flussi stessi possono creare tensioni, pretesti per chiusure di frontiere, per un effetto domino che alla fine non porterà alla gestione ordinata alla quale noi italiani aspiriamo, ma al rischio di fallimento di un pilastro dell’Unione, la libera circolazione. Bisogna condividere a livello europeo l’impegno su tutti i fronti, quindi sì a un impegno comune e permanente nelle frontiere esterne, nel diritto all’asilo, nella gestione dei rimpatri. La Grecia deve fare la sua parte, ma se si continua a chiedere ad Atene di risolvere per tutta l’Europa il problema di quasi un milione di migranti entrati in Grecia, credo che non andremo lontani». 

La Svezia vorrebbe rimandare indietro 80mila immigrati…
«Sono annunci di progetti a medio termine. Ma non dobbiamo inseguire l’ultimo annuncio di un ministro europeo. Le regole europee prevedono già i rimpatri nei paesi sicuri, quelli i cui cittadini non hanno diritto all’asilo. Gli annunci a effetto non risolvono i problemi. La chiusura delle frontiere, e i prelievi forzati sui rifugiati, contraddicono i nostri principi europei».

Che cosa c’è davvero in gioco nella sfida Italia-Germania?
«Abbiamo un orizzonte diverso circa le politiche economiche dell’Ue, su questo non c’è dubbio che l’impostazione italiana e tedesca siano diverse, per il diverso accento che mettiamo sulla necessità di crescita e investimenti rispetto a quello sul rigore nelle regole di bilancio. La novità è che l’Italia, che qualche anno fa era il malato d’Europa, oggi ha un’economia in ripresa, più o meno allineata con quelle dell’Eurozona, e quindi le carte in regola per dire che serve una fase espansiva. Al tempo stesso, abbiamo con la Germania un orizzonte condiviso su molte questioni strategiche di politica estera e sulle politiche migratorie. Che cosa tiene insieme questi due diversi orizzonti? È, dev’essere, la consapevolezza che Italia e Germania sono due protagonisti della realtà dell’Ue e quindi che i rapporti tra questi due paesi, sia quando ci sono punti di distinzione sia quando ci sono forti sintonie, sono fondamentali per il futuro dell’Unione».

Che cos’è rimasto della visita in Iran, a parte la vicenda delle statue coperte?
«A parte l’amaro in bocca per quella vicenda, resta la sostanza di rapporti sia politici sia economici che nelle prossime settimane saranno rilanciati da ulteriori missioni imprenditoriali e dalle visite in Iran dei ministri delle Infrastrutture e dell’Agricoltura. Le opportunità offerte dall’eliminazione delle sanzioni le stanno valutando non solo le imprese italiane, ma quelle di mezzo mondo. Noi però sappiamo di avere un piccolo vantaggio nella competizione: una tradizione di rapporti di collaborazione che dura da una sessantina d’anni».


 
© RIPRODUZIONE RISERVATA