Fronte mediterraneo: Egitto e Libia un nodo unico per l’Italia

di Alessandro Orsini
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Mercoledì 13 Aprile 2016, 00:02
Il disegno politico dell’Italia per sconfiggere l’Isis in Libia, e conquistare una posizione di primo piano nella ricostruzione di quel Paese, è un capolavoro di intelligenza strategica, il cui fine è di risparmiare, soldi, soldati e cittadini, riducendo le probabilità di un attentato contro le nostre città. Tale strategia, che riassumo nella formula “abbattere senza combattere”, si basa su tre mosse. La prima mossa è quella di favorire la costituzione di un governo di unità nazionale in Libia. Affinché siano i soldati libici, e non quelli italiani, ad abbattere le milizie jihadiste a Sirte. L’Isis ha una gerarchia dell’odio, la cui vetta è occupata dai Paesi che sono coinvolti nella lotta frontale contro il terrorismo. Detto più semplicemente, i Paesi che inviano aerei e soldati contro l’Isis sono più odiati dei Paesi che non li inviano.

Questo non significa che l’Italia non sia odiata. Significa che è meno odiata di altri, e siccome l’Isis ha risorse limitate, preferisce investirle contro i Paesi che odia di più. Ecco perché, finora, ha colpito Parigi e Bruxelles, ma non Roma. La seconda mossa dell’Italia consiste nell’attesa strategica della distruzione dell’Isis in Medio Oriente, che non è poi così lontana. Come abbiamo documentato il 29 marzo su queste pagine, l’Isis è in caduta libera. Mentre perde soldi e territori, la Russia e gli Stati Uniti organizzano l’attacco contro Mosul e Raqqa, dove si trova al Baghdadi, che sono le capitali dell’Isis in Iraq e in Siria.</CP> Vi è differenza tra l’attaccare le milizie jihadiste in Libia, sapendo che possono contare sul sostegno di Raqqa e Mosul; e attaccarle sapendo che al Baghdadi si trova sotto una pioggia di bombe. Se attaccassimo oggi, i foreign fighters si dirigerebbero verso Sirte.

 

Se attaccassimo domani, si rivolgerebbero verso Raqqa, che ha la precedenza su qualunque altra roccaforte dello Stato Islamico. La terza mossa dell’Italia, divenuta estremamente difficile dopo la tragica morte di Giulio Regeni, consiste nel bilanciare l’asse che si sta creando tra la Francia e l’Egitto, che spiega bene la visita a sorpresa del ministro Gentiloni a Tripoli, dove ha incontrato il premier designato, Fayez al Sarraj. L’Egitto ambisce ad avere un ruolo di primo piano nel futuro della Libia e si sta preparando, politicamente e militarmente, per competere con l’Italia. Nel febbraio 2015, ha comprato ventiquattro aerei “Rafale”, tra i caccia più sofisticati al mondo, nell’ambito di un accordo commerciale con la Francia del valore di 6 miliardi di dollari. I primi tre caccia sono arrivati in Egitto a luglio 2015, anticipati dalle dichiarazioni di Hollande, che ha espresso tutto il suo sostegno e la sua amicizia ad al Sisi. Sotto il profilo militare, il governo Renzi è in una posizione più debole dell’Egitto perché deve dare ascolto alla maggioranza degli italiani che è contraria a essere coinvolta in qualunque tipo di guerra.

Al Sisi, invece, essendo un dittatore, non è ossessionato da ciò che pensano gli egiziani, e si arma a più non posso. Un primo assaggio della vocazione bellica del presidente dell’Egitto, che è un generale dell’esercito, è giunto il 16 febbraio 2015, quando ha effettuato numerosi bombardamenti aerei sulle postazioni dell’Isis a Derna e a Sirte. Se al Sisi ha comprato tutti quei caccia dalla Francia è perché intende usarli. Questo significa che l’Italia, essendo un Paese con una fortissima vocazione pacifista, ha una strategia basata sull’aiuto militare indiretto. L’Egitto, invece, ha una strategia basata sull’azione militare diretta che, in genere, è il modo più rapido di penetrare in un Paese straniero in via di ricostruzione, ma anche di legittimare un dittatore che si identifica nella forza. Il futuro è chiaro: al Sisi è destinato a diventare un avversario sempre più temibile per gli interessi italiani nel Mediterraneo perché, abile nell’arte del governare, sa essere “leone”, per impaurire i lupi, e “volpe”, per riconoscere le trappole.

La forza del leone è visibile, ma l’astuzia della volpe è stata abilmente nascosta dalle violenze sul corpo di Regeni.
Subito dopo la sua ascesa, al Sisi ha iniziato a viaggiare, ossessivamente, alla ricerca di alleati potenti. Fatta eccezione per Erdogan, con cui si detesta ferocemente, ha stretto ottimi rapporti con Putin e con il re dell’Arabia Saudita, il quale, durante la sua recente visita al Cairo, ha annunciato l’accordo per la costruzione di un ponte sul Mar Rosso che legherà l’Egitto e l’Arabia Saudita. Re Salman, dopo avere definito al Sisi «mio fratello», ha affermato, testualmente, che il ponte legherà i due Paesi «in un modo che non ha precedenti». Economicamente, è un affare da 1,7 miliardi di dollari. Politicamente, è il coronamento della politica estera di al Sisi, tesa a rendere l’Egitto sempre più indipendente dalle potenze europee, anche in vista degli inevitabili contrasti che sorgeranno nel processo di ricostruzione della Libia, e negli sviluppi della tragica morte di Regeni.
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