Gli errori della Ue/ La lotta alle Br un modello per l’intelligence

di Paolo Graldi
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Giovedì 24 Marzo 2016, 00:01
E se non fossero “samurai invincibili”? L’analisi sulle Brigate Rosse e più in generale sul Partito Armato che Walter Tobagi consegnò a un fondo del Corriere della Sera divenuto celebre riecheggia in queste ore di sgomento e smarrimento dopo l’eccidio di Bruxelles. La presunta imprendibilità dei militanti del Califfato, nonostante la impressionante gaffe della polizia, anzi delle polizie del Belgio, che si sono lasciati sfuggire da sotto gli occhi i ricercati una mezza dozzina di volte, viene scossa da una serie di punti a favore. Primo fra tutti la cattura (in vita) di Salah Abdeslam. Trattato con i guanti bianchi, ricoverato in ospedale per una ferita d’arma da fuoco ad una gamba, poi lasciato a meditare in cella senza troppe pressioni investigative Salah, come anticipa con enfasi il suo avvocato nelle numerose e insinuanti interviste, potrebbe svuotare la miniera d’oro delle informazioni di cui è possessore e, sia pure con insanabili ritardi, contribuire alla ricostruzione della rete jihadista con nomi e cognomi degli affiliati, indirizzi di covi. 


E, soprattutto, disegnare la vasta mappa dei fiancheggiatori, l’acqua amica nella quale i clandestini e i fuggiaschi hanno mostrato di poter nuotare con naturalezza e infiniti vantaggi. Vittorio Parsi, in un’analisi a caldo, scriveva ieri della importanza di smantellare i reticoli di fiancheggiatori che, nel caso dei terroristi nati, vissuti e residenti a Bruxelles appaiono solidi ed estesi. Una autentica muraglia di complicità ai diversi livelli che s’irradia dalle parentele più strette (quando sono coinvolte nelle scelte dei congiunti) fino alle conoscenze di quartiere o di zona, là dove la polizia locale per anni si è tenuta alla larga da investigazioni che dallo spaccio delle droghe s’andavano via via allargando a scelte radicali, magari con viaggi di addestramento a Raqqa, nel cuore del califfato. Il terreno da rimontare è tutto in salita e per niente breve. Ma sono gli schiaffi sanguinari degli attacchi all’aeroporto e al metro che innescano a furor di popolo l’esigenza di nuove strategie, di profondi ripensamenti operativi, la promozione di alleanze tra organismi che adesso, pur vicinissimi, neppure si parlano, gelosi ciascuno dei propri (scarsissimi) risultati.

 

Ciò vale sul piano locale dove le polizie si ignorano ma ancor più a livello nazionale ed internazionale. Falle gigantesche nelle indagini e nelle strategie investigative, miopi gelosie di corpo e insensate blindature d’appartenenza, oltre a una diffusa e scarsa preparazione rispetto alla potenza devastatrice dei pericoli da sventare, hanno conferito vantaggi ai terroristi che sono costati lacrime e sangue. Anche in Italia alla fine degli anni Settanta, quando il terrorismo rosso andava selezionando nelle piazze incendiate le proprie squadre di clandestini, gli investigatori mostrarono un ritardo vistoso nella comprensione del fenomeno e del suo divenire. Si sospettava che le Brigate Rosse prima maniera spadroneggiassero al Nord, con Curcio e Franceschini, mentre Mario Moretti e il suo gruppo preparavano l’agguato di via Fani e il sequestro di Aldo Moro a Roma. Alla procura della Repubblica di Roma i magistrati brancolavano nel buio, i diversi uffici delle diverse città, si litigavano a suon di ricorsi la titolarietà delle inchieste lasciando cadere qualsiasi forma di fattiva collaborazione, dallo scambio delle carte alla condivisione delle informazioni fresche di polizia giudiziaria.

Ci sono voluti mesi, forse anni, per capire che le investigazioni locali andavano centralizzate, guidate da un’unica cabina di regia che fosse capace di sorvegliare dall’alto, senza preclusioni territoriali pervicacemente rivendicate, l’intero schema brigatista. Lo stesso è valso per il terrorismo nero, anche se le complicità occulte hanno reso la mappatura dei responsabili più difficile e protetta da brandelli di istituzioni deviate. Con Patrizio Peci - e la uccisione del fratello Roberto per ritorsione - la lotta al terrorismo è entrata nella fase veloce e fruttuosa dell’utilizzo dei pentiti. L’abbandono del mantello della cellula si è rivelato come la prima serie di picconate e, insieme con il fondamentale prosciugamento delle complicità d’ambiente (morte di Rossa a Torino), il primo passo decisivo verso lo smantellamento progressivo del Partito Armato. La fine degli Anni di Piombo. La realtà jihadista e i contesti nei quali si muove, gli obiettivi che si propone e gli intrecci internazionali, si prospettano con poche similitudini e moltissime differenze rispetto agli anni Ottanta italiani.

E tuttavia, giocoforza, il bisogno di clandestinità, il ricorso alle armi da guerra e agli esplosivi, la necessità di comunicare con parti dell’organizzazione e, soprattutto, le fasi preliminari del reclutamento e dell’addestramento fino al giuramento del martirio, mostrano aspetti in comune. Soprattutto mostrano la necessità di una collaborazione tra i diversi organismi dirigenti che per il momento, ostinatamente, manca. I governi, a parole, promettono e dipingono grandi strategie comuni ma di comune si vedono solo le sfilate listate a lutto dopo le stragi: così a Parigi a gennaio, a novembre, così a Bruxelles oggi. Il premier Matteo Renzi è da sempre sostenitore di una centrale unica dell’intelligence anti-terrorismo e di un organismo federale (ma non siamo ancora uno Stato federale) capace di sovrintendere e coordinare il lavoro delle Agenzie e delle polizie nazionali.

È dubbio che gli egoismi nazionali possano essere smantellati dalla cruda realtà di una sfida che impone di rinchiudere gli sciacalli e di mettere in gabbia le colombe, i sostenitori degli uni affamati di propaganda, gli altri vagheggianti inutili e perversi buonismi in una condizione dove la parola Guerra sembra sempre di più appropriata e aderente alla realtà.
Sarà l’immanente rischio di altre tragedie, ovunque, a indebolire gli opportunismi di bandiera e il nostro premier, stavolta, può giocarsi proprio a Bruxelles un asso pesante sul tavolo della risposta locale e insieme globale al terrore. La guerra al terrorismo non può finire sempre in un funerale solenne col sottofondo dell’inno nazionale e di quello alla gioia. Sì, forse non sono kamikaze invincibili.
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