Tuttavia, man mano che l’arretramento nei sondaggi del candidato Schulz appariva incolmabile, molte analisi hanno messo in evidenza la sua debolezza. E in aggiunta, nei Paesi come l’Italia, c’è stata una terza lettura: la riprovazione per la forza economica tedesca considerata, attraverso un grande artificio autoassolutorio, all’origine del nostro alto debito pubblico e della bassa competitività.
Scriviamo mentre i risultati elettorali non sono ancora definiti, e senza sapere che nuova coalizione nascerà a Berlino. Ma siamo convinti di una tesi molto diversa da quelle che abbiamo letto sino a ieri. Il voto tedesco non è la coraggiosa vittoria di un grande afflato europeo, incardinato in una forte cultura nazionale e per di più realizzato da un movimento che fino a pochi mesi prima non esisteva, come quello di Macron all’Eliseo e alle legislative che ha sconfitto frontalmente sia i populismi di destra e di sinistra sia i vecchi partiti del sistema gollista. Al contrario, il voto dei tedeschi confermerà certamente la Merkel cancelliera, ma punisce Cdu-Csu e umilia la Spd producendo una frattura storica: l’ingresso a vele spiegate nel Bundestag di quell’estremo nazionalismo xenofobo che è il cemento comune delle esperienze politiche negli ultimi anni del blocco di Visegrad nell’Europa orientale. Una avanzata che è molto più temibile, perché a differenza di quanto capita in Polonia e Ungheria s’innesta nel pangermanesimo - una corrente di pensiero filosofica, economica e di dottrina dello Stato - che alla storia europea ha prodotto lutti infiniti nelle guerre mondiali del Novecento.
I voti all’estrema sinistra di Die Linke erano il comprensibile residuo del post-unificazione tedesca da una parte, e dall’altra la critica radicale di una Spd prima riformatrice e mercatista con Schroeder tra 2003 e 2005 quando, con grandi riforme del lavoro e del welfare, la Germania ha posto le basi per passare da grande malato d’Europa e leader del continente, e dopo troppo caudataria della Merkel. La valanga di voti ad Afd è tutt’altra cosa: non accoglie, come tutti i populismi, solo i voti di chi a basso reddito e basso capitale umano è escluso dal grande dividendo di benessere, persino di un Paese a bassissima disoccupazione come la Germania; offre un’alternativa radicale anche a vasti strati della piccola e media e medio-alta borghesia tedesca, riecheggiando, in chiave moderna, il testo fondante del pangermanesimo, i Discorsi alla Nazione tedesca di Fichte, in cui l’impegno alla lotta contro Napoleone veniva chiesto non contro un tiranno conquistatore, ma in nome della purezza intatta della stirpe e della cultura tedesca rispetto a quella di ogni altro popolo europeo.
Ovviamente, bisognerà vedere come Merkel e i partiti che ne condivideranno il governo crederanno opportuno reagire. Ma una cosa è certa: ciò che avviene ora è senza precedenti nella storia tedesca successiva alla seconda guerra mondiale, ed è una sfida cultural-politica di prima grandezza non solo alla società di quel Paese, ma a tutti noi europei. In Germania, è sin troppo facile prevedere che, in primis nella Cdu-Csu, si aprirà un processo alla Merkel, per essere andata troppo a sinistra spalancando le porte ai profughi nell’estate 2015. E, passando all’economia, è ovvio che sarà ancor più improbabile ogni apertura tedesca alle ipotesi di mutualizzazione dei debiti pubblici, che tanto vengono chimericamente invocati da Paesi come l’Italia.
Ma la grande sfida è su un terreno che per importanza viene prima, rispetto ai concreti sviluppi politici che il voto determinerà in Germania e che Berlino porterà al tavolo europeo. La sfida è sulla cultura politica, che dovrebbe fondare le politiche concrete: anche se in Italia non è più così da molti anni. Come risponderanno l’Europa e l’Italia, all’influenza che sarà inevitabilmente esercitata dall’avvento in massa al Bundestag di una rappresentanza ultra-nazionalista e xenofoba, con venature di negazionismo e nostalgia mal repressa per ciò che alla politica tedesca era “indicibile”? Questa è la vera domanda.
Il passato ha molto da insegnarci. Nell’Ottocento e Novecento, il nazionalismo dello Stato del romanticismo prima, dell’idealismo poi, e del razzismo infine ha prodotto prima gravi errori, poi tragedie. Abbiamo colpevolmente volto lo sguardo altrove, di fronte al successo dei nazionalismi in Est Europa a chiara matrice autoritaria. Ora non possiamo più farlo, di fronte all’avanzata in Germania non di Afd come partito, ma innanzitutto dello sdoganamento culturale di cui in pochi anni è stato protagonista ed è mallevadore, tacitando armate intere di intellettuali europei. E se questo è il successo che quella cultura ottiene quando dal 2009 in Germania ogni trimestre la crescita economica è solo positiva, chiedetevi: che cosa avverrebbe se – e capiterà, i cicli economici esistono – in Germania l’economia rallenteasse sul serio?
La risposta della storia è chiara. L’errore peggiore sarebbe pensare: il nazionalismo xenofobo ha buoni motivi per risorgere di fronte alla globalizzazione ed è la via da percorrere. E molti lo penseranno e lo proporranno anche a casa nostra. Magari convinti che sia la vera soluzione ai presunti torti economici che la Germania della Merkel e Schaueble ci avrebbe inflitto.
Guardiamoci da questo errore. Da oggi, più che mai, o esiste una nuova cultura liberale capace di governare l’immigrazione e la proiezione europea sui mercati del mondo, senza tagliarne fuori a casa nostra i giovani e chi ha meno; oppure ciò che è stato erroneamente presentato per mesi come una noiosa conferma della Merkel potrebbe rivelarsi il prodromo di una frattura storica. Di portata e conseguenze impreviste e imprevedibili.
© RIPRODUZIONE RISERVATA