Cento giorni alla Casa Bianca/ Trump, la ricerca del consenso con le tasse ridotte e il caso Siria

di Marco Gervasoni
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Giovedì 27 Aprile 2017, 00:59
I primi cento giorni di Trump: non poi così male. Ma perché 100 e non di più (o di meno)? Fu Franklin Delano Roosevelt a inventare la formula: un bilancio dell’azione presidenziale di fronte all’emergenza della crisi del 1929. Da allora è diventata una ricorrenza per tutti gli inquilini della Casa Bianca. Prendiamola per quella che vale: appunto un simbolo. I presidenti di «rottura» nei primi tre mesi spesso infatti non combinarono granché: con Roosevelt ad esempio la ripresa economica si ebbe solo durante la Seconda guerra mondiale. Del resto il tempo è breve, a meno di non essere dotati di poteri assoluti - e non c’è presidente più circondato da “check and balances” come quello americano.

Tuttavia l’arrivo di Trump alla Casa Bianca è stato talmente fragoroso, e le promesse talmente elevate, che oggi i suoi cento giorni vengono scrutati con particolare attenzione. 
Con solo il 42% dei giudizi positivi, secondo un sondaggio del Washington post, è il livello più basso di un presidente americano dal 1945 ad oggi. Ancora più netto il New York times: quella di Trump è «la presidenza peggiore», non è chiaro se fin dai tempi di George Washington… Sia pure da molto lontano, il bilancio va sfumato. Sì, il grado di approvazione è piuttosto misero, ma lo era fin dai primi giorni della presidenza: altre indagini hanno poi mostrato quanto gli elettori di Trump siano tutt’altro che delusi, soprattutto sui temi del lavoro. E se si pensa alle mobilitazioni dei giorni successivi all’insediamento e alle invocazioni all’impeachment che fioccavano da diverse parti, il clima sembra piuttosto essersi rasserenato.

Vediamo prima i passi falsi. A Trump non è riuscita la riforma dell’Obamacare: gestita in modo malaccorto dal suo staff, ha lasciato briglia sciolta al gruppo parlamentare dei Repubblicani, spaccatosi facendo emergere quanto una parte di loro sia rimasta legata al liberalismo economico e all’antistatalismo dei Tea party, diversamente dal nazionalismo proposto dal consigliere di Trump, Bannon. Al contrario delle previsioni, il partito repubblicano non è insomma così prono ad obbedire al suo presidente. Ma l’Obamacare riguarda solo il 2% della popolazione: e Trump sembra aver capito che non vale la pena svenarsi in una battaglia simbolica. 
Così come l’altro simbolo, il Muro con il Messico, dopo i proclami battaglieri della campagna, è stato messo da parte: non inserito nella legge di spesa che le Camere devono approvare entro venerdì, per timore di una bocciatura. Trump, come qualsiasi presidente americano prima di lui, ha insomma dovuto piegarsi di fronte al Parlamento: che anche in un regime presidenziale come quello Usa conta, e molto. 

Così come conta l’altra bilancia del potere presidenziale: i giudici. Non solo hanno ridimensionato il muslim ban dei primi giorni, ma hanno frenato gli intenti di Trump di tagliare i fondi alle cosiddette “città santuario”, quelle che ospitano gli immigrati illegali. L’allarme nei confronti di una «dittatura Trump», come era prevedibile, si è quindi rivelato una paura infondata. Queste le ombre. 

Quanto alle luci, sono almeno due. Il clamoroso piano di taglio fiscale alle imprese, con le tasse che scenderanno dal 35% al 15%: facile prevedere che darà una scossa importante all’economia. E la politica estera; anche se non ne è chiara ancora la filosofia, l’azione in Siria è stata apprezzata da molti, anche tra i democratici. Trump appare insomma per ora ben lontano dal profilo di quell’isolazionista che minacciava di essere. È evidente che le azioni riuscite sono quelle intraprese seguendo le ricette conservatrici classiche, e quella reaganiana in particolare. 

Niente populismo, per ora, e niente nazionalismo economico: piuttosto una sana dose di realismo politico, nelle misure interne come in quelle nei confronti del mondo. Notevole pragmatismo, e poca ideologia, se non nei tweet. Resta da capire se muovendosi come un presidente “neoreaganiano” quando i tempi sono cambiati, se non addirittura come un presidente “centrista”, Trump non rischi di deludere eccessivamente coloro che hanno confidato in lui come leader di rottura. Un contraccolpo, quello delle aspettative frustrate, che potrebbe produrre reazioni incontrollabili, i cui frutti non è detto vengano raccolti poi dai Democratici. I tempi sono instabili e la rabbia degli elettori, se non governata, potrebbe generare mostri. 
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