Contro la guerra la forza armata delle nostre idee

di Biagio de Giovanni
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Giovedì 28 Luglio 2016, 23:59
Guerra di religione? Guerra di civiltà? Guerra globale? Come definire ciò che sta accadendo, mantenendo ferma la parola “guerra”? Dare nome alle cose è decisivo, non solo per una attitudine conoscitiva, ma per individuare, in questo caso, la natura del nemico e lo spazio della sua azione e della sua ideazione, e così poter dar l’avvio a una politica nei suoi confronti: non solo militare, quando questa è necessaria, ma culturale, pedagogica, fatta e composta di idee in grado anche di riattualizzare sentimenti e di ridare forza e convinzione a un Occidente incerto e diviso, in tanta tragedia, e diviso anzitutto sui nomi da dare alle cose. 

Muoviamo da un dato, il più ovvio possibile: chi ci fa guerra? C’è un soggetto complessivo che si chiama Stato islamico, e togliamo, per favore, la immancabile aggiunta “sedicente”, che vuol essere ironico-svalutativa e serve solo a nascondere la testa sotto la sabbia. Il primo dato che ci viene incontro è dunque politico, esso ci segnala un progetto politico che muove da un’area geografica ben determinata.

Ma la vede come un luogo di partenza, la riconquista di uno spazio originario, di una terra promessa che viene giudicata violentata sia da una ben conosciuta lotta intra-islamica, sia da una storia lontanissima e dalle ripartizioni franco-inglesi successive alla prima guerra mondiale. Da lì, per la stessa natura del progetto, la guerra tende a irradiarsi dappertutto, dalle regioni limitrofe, a zone importanti dell’Africa, e soprattutto all’odiato Occidente, che lo Stato islamico vede come il suo vero nemico, lo schiacciante prevaricatore della sua identità. Il primo aggettivo che connota la guerra è dunque “globale”, e su questo non mi fermo molto, e mi sembra un dato acquisito che stenta a riconoscere solo chi è fermo alla storia classica delle guerre tra Stati, travolte dall’irrompere, appunto, dello spazio globale. 

Ma che cosa aggiungere a “globale”? Il fatto che sia lo Stato “islamico” a dichiararla, a chiamarla “guerra santa”, impone inevitabilmente che al nostro sguardo si presenti una dinamica religiosa. Il punto di vista che quello Stato esprime è innnegabilmente questo, e peraltro è ciò che permette mobilitazione ed espansione. Nelle parole d’ordine intrise di violenza che girano nella rete, di guerra per la vita e per la morte, c’è sempre quel dato ultimo, che indica la lotta all’infedele senza distinzioni, un sacrificio della vita individuale per la salvezza, comunque poi quest’ultima sia formulata o promessa. Questo dato è innegabile e tutte le sue derubricazioni sono reazioni che non esito a definire infantili. Ma da qui, il problema che insorge è di estrema complessità e di non certo facile analisi. Il mondo degli esperti su questo è diviso. In quale misura c’è, dentro l’Islam, almeno un elemento di fondazione che può legittimare una rappresentazione così cupa e tragica della coesistenza tra gli uomini? Che può dividere l’umanità in fedeli e infedeli? 

Azzardo una ipotesi che ha dei sostenitori: è l’immediatezza del rapporto tra Rivelazione e Storia che dal Corano sembra trasfondersi nelle coscienze di alcuni. Come se la storia medesima diventasse sacra, data la possibilità di leggere in un rapporto diretto, di coincidenza immediata, la relazione tra la Parola del profeta e il Libro in cui essa è consegnata. Problematica, dunque, la distanza tra Rivelazione e Storia, con conseguenze che possono contenere intolleranze radicali e violenze; quella relazione che nella rivelazione cristiana è segnata, invece, da una distinzione, quella che ha consentito al cristianesimo, nelle sue varie confessioni, di conquistare progressivamente l’idea della libertà dell’uomo, nello spazio della storia, proprio dove si muove l’azione degli uomini. Vorrei anche aggiungere che, anche se questa ipotesi fosse, come credo, argomentabile, ciò non implicherebbe in nessun modo un “vade retro” all’Islam come tale. Le componenti dei monoteismi sono assai complesse, e le rappresentazioni di essi che prevalgono di volta in volta sono anche legate al divenire complessivo delle società in cui essi vivono e si sviluppano. E qui ci sarebbe da ricordare che il potente avvio di un rapporto dell’Islam con l’Età moderna è poi precipitato nel progressivo isolamento di quella confessione religiosa. Si può aggiungere che in tutti i monoteismi ci sia qualcosa di intrinsecamente violento, nella stessa idea della creazione del mondo dal nulla e dell’unico dio che ne è protagonista. Onde le diatribe secolari, diffuse dappertutto, e nell’Occidente cristiano, sul tema della libertà e della storia. O sulla necessità della conversione, magari con forme di convincimento un tempo un po’ dure.

Che concludere su questo passaggio? Che sicuramente, dal punto di vista dello Stato islamico, la religione conta, che senza il suo collante non sarebbe immaginabile quella mobilitazione globale di cui si intravede addirittura la crescita, naturalmente un elemento collegato con tanti altri, però lì unificato, lì mobilitante. Ma proprio perché consapevoli di questo, il punto di vista euro-occidentale non può esser quello della “guerra di religione”, questo lo lasciamo a quella zona dell’islamismo radicale imbevuto di violenza assoluta. L’Occidente, le guerre di religione le ha lasciate deperire da circa 500 anni, e non possiamo far rinverdire oggi, nella nostra coscienza, segnata dall’Età moderna, quello che è scomparso dalla nostra storia, ed è lontano dalle nostre menti; e non possiamo essere riafferrati da quella rappresentazione, o spinti ad accoglierla, ad opera di nessuna spinta esterna. L’Occidente deve rispondere a una guerra di religione non con lo stesso armamentario, rovesciato di senso, ma rivendicando e rielaborando al meglio la propria conquista della distinzione tra religione e politica, liberandola da ipoteche nascoste, combattendo per mantenerla più che mai viva. Non si dimentichi che, nelle lotte novecentesche tra i totalitarismi e la democrazia, gli elementi di una “religione” collettiva hanno travolto il mondo nella loro assoluta violenza, da noi, nell’Occidente moderno. Altra lezione da non dimenticare.

Guerra di civiltà, infine? Anche qui reticenze, resistenze ad ammetterlo, ed è necessario molto senso delle distinzioni. Non guerra di civiltà tra Occidente ed Islam, ma guerra di civiltà contro quella visione dell’Islam che si chiama Isis. Guerra, in questi confini, tra due visioni della civiltà, una civiltà della forza e della violenza pure, di una forza che pretende di essere anche giustizia e verità assoluta, dove tornano in campo forze primordiali che stanno nel cono d’ombra dell’umanità, quelle forze che hanno in orrore la luce, e che vivono dell’idea purificatrice della morte. Una civiltà può essere ossessionata da una sola idea, da un solo principio assoluto e questo ci può far comprendere perchè essa non è destinata a vincere, ma a una condizione: che l’Occidente riprenda il senso della complessità della sua civiltà, che non si nasconda nell’indifferenza che sta nelle nostre società. In questione, voglio dirlo in conclusione, non sta rinverdire e richiamare le radici cristiane dell’Europa e dell’Occidente; piuttosto sta nel rimettere a fuoco la nostra identità plurale, comprensiva anche del nostro rapporto con l’Islam, nel ridar corpo alla costituzione ricca di tutto ciò che sta nelle nostre vite, opporre questo a quel delirio di morte.

Una forza, insomma, armata di idee.
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