Cina-Trump, sfida sui mari. Pechino: si rischia la guerra

Cina-Trump, sfida sui mari. Pechino: si rischia la guerra
di Cristina Marconi
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Sabato 14 Gennaio 2017, 09:00 - Ultimo aggiornamento: 17:12
LONDRA Gli Stati Uniti sono avvisati: bloccare l'accesso di Pechino alle isole che ha costruito nelle acque contese del Mar cinese meridionale porterebbe ad una guerra su larga scala. Così due media statali cinesi hanno risposto nei loro editoriali alle dichiarazioni fatte mercoledì scorso dal futuro segretario di Stato dell'amministrazione Trump, Rex Tillerson, secondo cui gli Stati Uniti impediranno alla Cina di accedere alle isole artificiali e alle fortificazioni, erette sul reef, sugli scogli e sulle secche, in una porzione di mare rivendicata anche da Taiwan e da altri paesi asiatici come Vietnam, Filippine, Malaysia e Brunei. L'amministrazione Obama aveva già denunciato la costruzione dell'arcipelago e si era impegnata a mantenere la libertà di navigazione nell'area, ma non aveva mai parlato di bloccare l'accesso.

«UN SEGNALE CHIARO»
«Dobbiamo mandare alla Cina un segnale chiaro che innanzi tutto la costruzione delle isole deve finire e che, in secondo luogo, l'accesso a queste isole non verrà consentito», ha dichiarato invece Tillerson, che ha anche paragonato la costruzione dell'arcipelago all'annessione della Crimea da parte della Russia. Già il presidente eletto Donald Trump si era espresso in passato accusando Pechino di «costruire una gigantesca fortezza nel bel mezzo del Mar cinese meridionale, cosa che non dovrebbe fare». Seguendo uno schema già visto, la reazione ufficiale della Cina è stata moderata, con un portavoce del ministero degli esteri che ha sottolineato come il governo abbia il diritto di condurre normali attività nel suo territorio, lasciando al China Daily e al Global Times il compito di lanciare un messaggio più aggressivo. Per il primo, i commenti di Tillerson rivelano un'ignoranza in materia di relazioni sino-americane ma anche di diplomazia in generale. «Tillerson farebbe bene ad approfondire le strategie sul nucleare se vuole costringere una potenze nucleare a cancellare il suo territorio», si legge sul Global Times, che aggiunge: «La Cina ha sufficiente determinazione e forza per garantire che questa mossa demagogica non abbia successo... A meno che Washington non voglia condurre una guerra su larga scala nel Mar cinese meridionale, qualunque altro approccio per impedire l'accesso cinese alle isole sarebbe folle».

Da quanto emerso da alcune foto aree pubblicate da un think tank, sulle isole ci sono piste aree, sistemi radar e batterie antimissile e contraerea e sebbene la Cina si fosse impegnata a non militarizzare le fortificazioni, il ministro della Difesa ha fatto sapere che si tratta di un'attività «legittima e legale».La progressiva militarizzazione degli avamposti portuali cinesi si sta verificando in molte parti del mondo, come spiega il Financial Times in una lunga inchiesta sugli investimenti che Pechino sta portando avanti per cercare di prendere il posto degli Stati Uniti come superpotenza navale. Questo, osserva il quotidiano, potrebbe mettere a repentaglio quell'equilibrio che ha permesso all'occidente di godere di un periodo di relativa pace dal 1945 ad oggi. Negli ultimi sei anni il paese, sotto la guida del presidente Xi Jinping, ha investito in tutto il mondo, a partire dalla costruzione del porto di Gwadar in Pakistan, nato come base mercantile strategica e progressivamente aperto alle attività militari.
Lo stesso schema è stato applicato in Sri Lanka, in Grecia e a Gibuti, dove «gli investimenti cinesi nei porti civili sono stati seguiti dal dispiegamento o dalle visite delle navi dell'Esercito Popolare di Liberazione oppure da una presenza militare a più lungo termine».

LA BASE NAVALE
A Gibuti, in particolare, Pechino ha ammesso di voler costruire la prima base navale all'estero, in modo da assicurare che i militari cinesi rimangano nella regione almeno fino al 2026, con un contingente di 10mila uomini. La forza cinese è dimostrata dal fatto che gli operatori portuali cinesi sono sempre più rilevanti sul piano mondiale e che le compagnie navali del paese trasportano più container di quelle di chiunque. Inoltre, sempre secondo i dati raccolti da FT, circa due terzi dei primi 50 porti da container hanno una qualche presenza cinese. E questi porti gestiscono il 67% dei volumi globali di containers, secondo Lloyd's List Intelligence.

La presenza cinese non è unicamente diretta verso le grandi infrastrutture, ma anche verso i piccoli scali strategici, e dal 2010 ad oggi le compagnie cinesi e di Hong Kong hanno fatto o annunciato investimenti per 45,6 miliardi di dollari, secondo uno studio condotto con la collaborazione del King's College. Per Xi la strategia marittima risponderebbe all'idea di ricostruire una sorta di Via della Seta in grado di riaccendere gli investimenti in 60 paesi. E se qualcuno non è d'accordo ad aprire le proprie coste alla Cina, come il presidente dello Sri Lanka Maithripala Sirisena, gli si può sempre ricordare il debito di 8 miliardi di dollari con le banche del paese.