Via il limite ai mandati e accentramento dei poteri/ La Cina cambia la costituzione, Xi potrà restare presidente a vita

di Franco Cardini
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Lunedì 26 Febbraio 2018, 00:34 - Ultimo aggiornamento: 00:35
Per quanto ormai si tenda a dimenticarlo e qualcuno - un po’ superficialmente - non prenda più la cosa troppo sul serio, la Cina popolare rimane uno stato comunista. Sotto il profilo economico, è vero, le istituzioni statali si sono adattate a un’economia internazionale “di mercato” che le ha consentito di divenire fortemente competitiva, ma il primato della politica sull’economia è rimasto ben solido. 

La partecipazione delle imprese cinesi alle lobby internazionale non ha intaccato il principio della golden share azionaria nelle mani dello Stato e ciò ha consentito al Paese nel 2009, nonostante la recessione internazionale, di accrescere il proprio prodotto interno lordo del 7,1% (ma il rallentamento del 2012 si è fatto sentire). 
Nel 2014, fra settembre e ottobre, studenti e attivisti anti-sistema inscenarono una protesta contro il piano di riforma elettorale previsto per il 2017: la repressione fu piuttosto blanda, ma gli esiti del movimento si mantennero modesti. E forse la risposta istituzionale, passata “senza sorprese” la competizione elettorale, arriva ora: il Comitato centrale del Partito comunista cinese (del quale il presidente della repubblica Xi Jinping è anche segretario generale dal 2012) ha proposto una modifica della costituzione che gli consentirà di liberarsi dal vincolo che prevedeva che la stessa persona non potesse andare oltre il secondo mandato presidenziale. Ora il limite è annullato: in linea di principio, l’attuale leader potrebbe restare in carica a vita. Dal momento che il presidente-segretario ha 65 anni, salvo imprevisti potrebbe tranquillamente restare in carica - data l’attuale speranza di vita - per un altro buon ventennio e più. I poteri concentrati nelle sue mani sono attualmente di gran lunga superiori a quelli del Grande Vecchio, Mao Zedong. 

Ma in pratica, si dirà, che cosa cambia? Nell’immediato probabilmente nulla: salvo che, nell’accanita ma riservatissima lotta per il potere che si svolge nella “Città Proibita”, il gruppo dei suoi fedelissimi esce dalla modifica costituzionale senza dubbio per un verso rafforzato, per un altro ancor più tenuto saldo in suo pugno. Xi Jinping, lo sappiamo, tiene molto a due cose in particolare: la politica estera, specialmente riguardo ai rapporti con gli Stati Uniti d’America (che hanno nei confronti della Cina un debito economico enorme, tale da mettere almeno virtualmente Washington nelle mani di Pechino) e con la Russia, con la quale si va delineando ogni giorno di più una sorta d’alleanza che si esprime attraverso uno strumento formidabile, la “Convenzione di Shanghai” (Sco), alla quale potrebbero accedere anche India e Iran; e lo sviluppo del piano della New Silk Road, che nel giro di pochi anni potrebbe radicalmente mutare il volto dei traffici internazionali eurasiatici ridefinendoli attraverso il perfezionamento d’una colossale duplice strada, il road ferroviario Pechino-Amsterdam-Londra e il belt navale Oceano Pacifico-Oceano Atlantico. 

Questi colossali progetti rendono desueti se non patetici, bisogna riconoscerlo, i vecchi strumenti politico-istituzionali che noialtri occidentali ci ostiniamo a definire democratici. Fino a pochi anni fa, erano ancora in molti gli osservatori politici che si ostinavano a finger di non vedere come, in tutto il mondo, gli strumenti della vecchia democrazia parlamentare di stampo ancora ottocentesco fossero ormai sorpassati e come la società civile di tutto il mondo, in modi fra loro sia pur molto diversi, si andasse orientando a un superamento di essi in senso oligarchico. Qualcuno, con un gioco di aprole un po’ crudele –il nostro vecchio Giovanni Sartori non ci andava giù con i guanti di velluto – ha già detto più volte che le “democrazie avanzate” sono in realtà “quel che avanza della democrazia”. E ci andiamo accorgendo che ne avanza davvero poco. Nella stessa grande, per più versi esemplare superpotenza democratica americana, nelle ultime due competizioni elettorali gli aventi diritto che non hanno votato hanno superato il 30%; il micidiale cocktail di disorientamento e di disaffezione che sembra aver investito l’opinione pubblica italiana fa temere che, nel nostro caso, si andrà ancor oltre rispetto a quella già spaventosa percentuale. D’altronde, i meccanismi elettorali – e quello previsto da noi ne è un esempio – si stanno orientando sempre più in modo da consentire alle segreterie dei partiti di “modellare” il parlamento in modo da evitare le sorprese dirigendone con sicurezza i lavori e le scelte.

Questo trend, che si va affermando un po’ in tutte le democrazie che continuiamo a definire “parlamentari”, le va lentamente trasformando in sistemi oligarchici, per quanto non sempre sia chiaro (specie in Italia) se riuscirà mai ad affermarsi un sistema oligarchico che si caratterizzi per un “governo dei più preparati”, “dei più capaci”: o se si tratterà invece dell’affermazione di una classe politica eterodiretta in quanto espressione della volontà di poteri forti finanziari ed economici che sembrano sempre più dominare tanto il mondo della politica quanto quello dei media. D’altra parte, lo hanno capito tutti che gran parte dei poteri politici mondiali stanno saldi nelle mani di quelle poche decine di signori che abbiamo visto qualche settimana fa, riuniti a Davos, per quanto non ci abbiano fatto una grande impressione: alla faccia comunque della democrazia come molti continuano a immaginarla. Anni fa, in un pamphlet che fece scalpore, Luciano Canfora definì la democrazia “un’ideologia”. Le ideologie prima o poi fanno tutte il suo tempo.

Tutto ciò rende chiaro quel che a qualcuno può essere sembrato strano: cioè che la mossa del Comitato Centrale del Partito Comunista Cinese non abbia poi generato quell’apprensione e quella sorpresa che ci si sarebbe potuti aspettare. Da tempo siamo abbastanza assuefatti ad “aggettivare” al democrazia. Il sostantivo non basta più, da solo, a qualificarla. Sempre più si parla anche di “democrazie tecnocratiche”, di “democrazie élitarie”, addirittura di “democrazie autoritarie”; peraltro, alcuni politologi hanno usato anche l’espressione di “democrazia totalitaria” senza che ciò sia sembrato necessariamente un ossimoro. L’impressione che, dietro la crisi di questi anni, si stia profilando l’inizio di una profonda svolta epocale sta prendendo sempre più piede. In pochi mesi, dopo l’ingresso di un multimiliardario non granché politically correct alla Casa Bianca, arriva ora il “presidente (forse) a vita” nella Città Proibita. E a Mosca abbiamo un quasi-zar…
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