Ma i britannici pagheranno il prezzo più oneroso

di Romano Prodi
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Sabato 25 Giugno 2016, 00:05 - Ultimo aggiornamento: 11:42
Tanto tuonò che piovve. E la pioggia della Brexit è forte e mista a grandine. Il temporale delle borse e dei mercati finanziari durerà tuttavia poco tempo perché, pur sperando in un esito diverso, le misure di emergenza sono state preparate anche per le ipotesi peggiori. E sono sufficienti.
Avremo quindi qualche giorno di turbolenze fino a quando qualcuno non comincerà a giocare al rialzo, riflettendo sul fatto che l’uscita della Gran Bretagna dall’Unione Europea non è la fine del mondo.
È invece possibile che sia la fine della Gran Bretagna perché l’Inghilterra e il Galles hanno votato per l’uscita mentre la Scozia e l’Irlanda del Nord hanno dimostrato la volontà di rimanere in Europa. Una divisione che avrà conseguenze politiche pesanti e che accentuerà le tensioni secessionistiche sia interne al Regno Unito che in altri Stati europei, a partire dalla Spagna.
La Brexit ha messo in rilievo un’altra divisione: quella tra i ricchi cosmopoliti che vivono a Londra e nelle altre città più prospere, che hanno votato per l’Europa, mentre gli operai e i contadini che vivono nell’Inghilterra minore e si sentono schiacciati ed emarginati hanno votato per l’uscita dall’Unione. È la conferma di una divisione che sta crescendo.


Come, del resto, dimostra ogni prova elettorale in tutti i Paesi europei: i centri delle città continuano a orientare il loro voto verso i partiti tradizionali, mentre le periferie non si sentono protette né dai governi nazionali né da quelli europei.
 
Vi è quindi un messaggio chiaro e netto per Bruxelles: bisogna che le istituzioni europee si sveglino e riprendano la costruzione di quell’Unione forte e solidale di cui tutti abbiamo bisogno. È parimenti necessario che il Paese oggi leader (cioè la Germania) si renda conto che la leadership si può esercitare con efficacia solo se ci si fa carico degli interessi di tutti. Nei prossimi giorni Renzi, Hollande e Merkel si incontreranno a Berlino: è questo il momento di cominciare a costruire il futuro con proposte forti e concrete da sottoporre al successivo Consiglio Europeo. Quello che era impossibile fino a ieri diventa obbligatorio lunedì prossimo.

La Brexit non è perciò la fine dell’Europa (perché dell’Europa oggi non possiamo fare a meno) ma è uno schiaffo alle inerzie dell’Europa. Bisogna cominciare a prendere atto di quello che è avvenuto e dare subito inizio ai negoziati per regolare le conseguenze del divorzio con la Gran Bretagna, decidendo se essa continuerà ad avere accesso al mercato unico come la Norvegia o se la scelta si orienterà verso accordi bilaterali come la Svizzera o se, come ritengo poco probabile, si sceglierà la separazione commerciale più radicale che era nel taccuino di Boris Johnson.

La via norvegese è certamente quella che porta meno turbamenti al mercato ma costa assai cara all’erario britannico, mentre la strada Svizzera è più complessa ma meno costosa. In entrambi i casi bisogna provvedere con accordi minori riguardo alla libera circolazione delle persone. Non è certo difficile imitare le scelte di due Paesi che hanno rapporti commerciali estremamente aperti e intensi con l’Unione Europea. Non vedo quindi prospettive di grandi rotture nel campo commerciale che, se vogliamo essere sinceri, ha sempre costituito la ragione di fondo, se non l’unica ragione, dell’adesione degli inglesi all’Unione Europea dato che, negli altri campi, la strategia dei loro governi è stata sempre quella di accumulare eccezioni su eccezioni.

Penso invece che la Gran Bretagna sarà la più danneggiata da questa decisione. La City rimarrà ancora la City, perché è una concentrazione di specialisti che trova risorse paragonabili solo a New York, ma ci sarà un progressivo aumento della concorrenza da parte di alcune piazze europee e, soprattutto, molte imprese multinazionali saranno spinte a trasferire i loro centri decisionali all’interno dell’Unione Europea. E così avverrà per numerosi centri di ricerca che sono nati in seguito a progetti comunitari, mentre saranno meno numerosi coloro che investiranno nel mercato immobiliare londinese. 

È chiaro che queste evoluzioni provocheranno un rallentamento dell’economia britannica e, di conseguenza, eserciteranno un effetto negativo anche nei nostri confronti. Si tratta però di un effetto negativo di minore rilevanza rispetto alle previsioni che, prevalentemente a scopo di propaganda, sono state diffuse negli scorsi giorni.
La vera grande ferita è nei confronti dell’immagine dell’Europa nel mondo, non solo perché perdiamo il Paese con l’esercito più efficiente e con solide tradizioni democratiche, ma anche perché tanti popoli del pianeta guardano all’Europa attraverso gli occhi della Gran Bretagna. Rimane tuttavia inspiegabile l’errore di Cameron di avere indetto il referendum senza pensarne le conseguenze ma solo perché sicuro di vincerlo e di rafforzare quindi il proprio potere. 

La sola bella notizia di questa triste giornata è che Cameron ha preso coscienza del suo errore e se ne ritorna a casa. Qualche volta gli errori si pagano subito. Per il futuro la maggiore speranza ci viene dal fatto che i giovani britannici hanno votato per rimanere in Europa.
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