Sì all’impeachment per Rousseff: nel caos il Brasile dei Giochi

di Loris Zanatta
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Martedì 19 Aprile 2016, 00:12
Nulla pare ormai poter salvare Dilma Rousseff. A meno di imprevisti, il treno dell’impeachment arriverà a destinazione e il suo mandato finirà anzitempo e in malo modo. Non che il dibattito parlamentare sia stato dei più edificanti. Demagogia e cinismo vi si sono rincorsi. Ma c’è poco da lamentarsi.

Il livello del ceto politico è un problema ovunque e molti di coloro che oggi invocano Dio e i Santi per punire Dilma, erano ancora ieri gli alleati su cui poggiava il suo governo. Al di là della opinabile solidità delle imputazioni giuridiche che le costeranno la presidenza, non v’è dubbio che a Dilma sia arrivato il conto di numerosi e gravi errori. Alcuni suoi, altri no. Tra i suoi, spicca l’assoluta incapacità di creare la seppur minima corrente di empatia con l’opinione pubblica, di smettere per un istante i grigi panni della burocrate per colorare di creatività politica la sua azione di governo, di emanciparsi dall’ombra lunga del suo ingombrante predecessore, di intessere i negoziati e coltivare le alleanze necessarie a galleggiare nella palude politica brasiliana.
 
Eppure Dilma paga ancor più gli errori di Lula e del suo partito, il PT: il precoce esaurimento dello slancio riformista dei primi tempi; l’illusione di avere scovato la formula magica dello sviluppo, quasi che il boom brasiliano fosse frutto della genialità del governo e non di una congiuntura straordinaria e forse irripetibile; il ritorno alla finanza allegra e alle sovvenzioni facili, a scapito della disciplina fiscale cui Lula s’era così saggiamente attenuto un tempo; e la corruzione, smisurata e spudorata al punto di trasformare Petrobras, un tempo modello di trasparenza, nel bancomat di un ceto politico corrotto; corruzione tutt’altro che inedita in Brasile, ma eretta a sistema dal PT, che non ha mai perso il vizio di vantare una sorta di superiorità morale in nome della quale è facile cadere nella tentazione di farsi gioco della legalità evocando il Popolo.

Detto ciò, tuttavia, non è affatto certo che quella di ricorrere all’impeachment sia una buona idea per chi dall’opposizione, dalla stampa, dalle piazze, dai media o dai mercati finanziari la invoca per salvare il Paese. Non è detto, insomma, che staccare i tubi da cui dipende la vita del governo e porre fine per via artificiale al ciclo storico del PT, sia più lungimirante che attenderne la fine fisiologica, decretata dalle urne. Sfiduciare il PT, per quanto impopolare sia oggi agli occhi dei brasiliani che l’hanno a lungo amato e votato, non è come sfiduciare Collor, il presidente costretto a dimettersi nel 1992: tanto era un astro evanescente quello, quanto il PT ha profonde e popolari radici. È vero che il governo è allo sbando e il Paese fermo al palo.

Ma lo è altrettanto che l’uscita di scena di Dilma Rousseff non garantisce affatto che tutto si rimetta per magia in moto: perché la presidenza passerebbe nelle mani di un politico di scarso prestigio e credibilità; perché formare coalizioni riformiste non sarebbe meno difficile di quanto lo sia oggi; perché tale esito polarizzerà il paese e metterà in mano al PT, libero da sconfitte elettorali, la portentosa carta del vittimismo, al punto che la baldanzosa sicumera con cui l’opposizione danza oggi sulla sua tomba potrebbe da qui alle prossime elezioni trasformarsi in boomerang. Ma la via dell’impeachment è irta di pericoli soprattutto perché è pericoloso generare aspettative salvifiche senza avere ragionevoli possibilità di soddisfarle. In tal caso, lo scarto tra promesse e realtà, tra i brasiliani assetati di giustizia e la politica incapace di garantirgliela, rischia di generare il vuoto e la frustrazione di cui si nutre solitamente il populismo; fenomeno di cui il Brasile ha per sua fortuna finora assaggiato appena l’antipasto.
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