Dietro il caso Apple/I trucchi contabili con cui l’Irlanda si traveste da tigre

di Marco Fortis
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Martedì 13 Settembre 2016, 00:05
Per mano della commissaria Margrethe Vestager, Bruxelles chiede che Apple paghi all’Irlanda 13 miliardi di euro di tasse non pagate. 

Ciò a seguito di accordi fiscali ritenuti impropri tra Dublino e il gigante dell’elettronica. La Apple ovviamente non l’ha presa bene e si opporrà a questa decisione. Ma anche l’Irlanda ha annunciato di voler fare ricorso contro la Ue. In molti hanno evidenziato come la richiesta di Bruxelles alla multinazionale di Cupertino abbia le dimensioni di una manovra finanziaria, non della piccola Irlanda ma addirittura di un grande Paese europeo. E in diversi si sono chiesti perché Dublino dovrebbe rinunciare ad incassare una simile somma che rimetterebbe definitivamente a posto tutti i suoi conti che solo fino a poco tempo fa erano precipitati in una condizione disastrosa.

In Italia, alla luce delle dimensioni della richiesta avanzata alla Apple, alcuni hanno invece subito colto l’occasione per polemizzare sul fatto che recentemente il nostro Paese avrebbe concluso troppo sbrigativamente delle transazioni con alcune multinazionali alle prese con problemi fiscali, transazioni ritenute secondo questi critici premature e assolutamente modeste rispetto a quanto si sarebbe potuto incassare.

La realtà è che c’è una ragione molto precisa (oltre a quanto potrebbero essere arcigni i legali della Apple nell’eventualità di un interminabile e duro contenzioso) perché Dublino è orientata a rinunciare ad introitare i 13 miliardi che secondo Bruxelles sono tasse “evase”. Ed è che non vuole far scappare gli investitori esteri. I quali, tra l’altro - fatto non secondario - da qualche settimana garantiscono “statisticamente” oltre 60 miliardi di euro in più al Pil irlandese, quantunque non necessariamente “disponibili” per la popolazione locale. Ciò proprio grazie agli investimenti delle multinazionali straniere che, attraverso un puro artifizio contabile, dal luglio scorso in un sol colpo hanno migliorato enormemente tutti i dati economici dell’Irlanda, incluse le statistiche del settore pubblico che presentano il Pil al denominatore, come il deficit/Pil e il debito/Pil. In sostanza, di fronte alla scelta di avere un uovo d’oro oggi (i 13 miliardi di tasse “evase”), il governo irlandese preferisce di gran lunga poter conservare il più a lungo possibile la gallina dalle uova d’oro, grazie alla quale gli investimenti delle multinazionali straniere piovono come mai prima.

La bella patria di Yeats e di Van Morrison, di Sandy Denny e degli U2, con le sue meravigliose campagne e vedute marine, sarà anche una piccola isola di appena 4 milioni e mezzo di abitanti ma il suo pugnace Central Statistical Office (Cso) ha messo l’Eurostat di fronte al fatto compiuto. Grazie alle nuove metodologie contabili internazionali, il Cso ha rettificato i dati del Pil irlandese del 2015 inserendovi di punto in bianco gli effetti della cosiddetta “globalizzazione”, termine piuttosto vago che in questo caso sta per la localizzazione in Irlanda di alcune fra le più importanti multinazionali. L’Eurostat ha preso atto ed ha anche diramato una nota ufficiale, in attesa di dare a breve un giudizio definitivo. In tale nota l’Eurostat accetta, di fatto, il principio della globalizzazione/localizzazione adottato dal Cso per alzare il Pil irlandese. Ma l’ufficio statistico europeo è piuttosto povero di informazioni al riguardo; ad esempio, nelle domande e risposte precompilate della nota stessa, circa il quesito su quali siano i gruppi multinazionali che hanno concorso al boom del Pil irlandese, l’Eurostat afferma che per motivi di riservatezza non è possibile rispondere.

Ebbene, noi non ci addentreremo in quegli aspetti metodologici e statistici che lasciano piuttosto perplessi. Ci limiteremo ad offrire ai lettori del Messaggero alcuni dati - certificati dall’Eurostat stesso sul suo sito - che dimostrano come anche in economia sia possibile, volendo e potendo, fare il gioco delle tre carte. Infatti, tra il 2014 e il 2015 il Pil dell’Irlanda è cresciuto con i nuovi dati di ben 62,6 miliardi a prezzi costanti, cioè del 26,3%. Mica male per un Paese che nel 2014 aveva una economia grande 193 miliardi di euro e che nel 2015 è balzata come se niente fosse a 256 miliardi. Dal lato della domanda quasi tutto si spiega con 97 miliardi di esportazioni in più a prezzi correnti nel 2015 e 51 miliardi di importazioni in più. La differenza fa 46 miliardi: un “giochetto” che permette alle multinazionali localizzate in Irlanda di riesportare dall’isola a prezzi assai più alti prodotti precedentemente importati in Irlanda a basso prezzo. Ciò al fine di realizzare sul posto incrementi di valore, leggasi profitti, tassati favorevolmente molto poco dal governo di Dublino. Dal lato dell’offerta, la maggior parte della crescita del valore aggiunto irlandese è invece stata determinata dal solo settore manifatturiero, cresciuto addirittura di 50,3 miliardi di euro tra il 2014 e il 2015, cioè del 136% in un anno!

Il “miracolo”, con i nuovi sistemi contabili, si è verificato tutto tra il quarto trimestre del 2014 e il primo trimestre del 2015 quando il Pil irlandese è aumentato all’improvviso a prezzi costanti del 21,4%. Poi, dopo questa discontinuità statistica, la “tigre celtica” non è che abbia fatto le faville così entusiasticamente magnificate da tanti commentatori un po’ approssimativi. Infatti, dal secondo trimestre 2015 al primo trimestre del 2016, la crescita cumulata del Pil irlandese è stata solo del 2,8%. 

Ma intanto, grazie al “salto quantico” dell’economia dovuto alla contabilizzazione della “globalizzazione”, il rapporto debito pubblico/Pil dell’Irlanda è sceso dal 107,5% del 2014 al 93,8% del 2015. Poco importa che la posizione netta sull’estero di Dublino sia salita nel frattempo dal -162% del Pil del 2014 al -208% del 2015 mentre il valore massimo consentito ai Paesi membri dalla procedura sugli squilibri macroeconomici dell’Ue è -35%. In Europa, infatti, è ormai abbastanza chiaro che la flessibilità statistica di cui godono alcune economie è assai più lasca della flessibilità politica che viene negata ad altre.
Alla luce di questi aggiustamenti statistici e del loro indiscutibile successo pratico si potrebbe proporre di cambiare appropriatamente il soprannome dell’Irlanda da “tigre celtica” in “volpe celtica”. Ma suggeriremmo nel contempo agli italiani di non sentirsi poi tanto frustrati quando comparano i dati della crescita del nostro Paese con quelli “drogati” di Dublino.
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