Le due anime dell’Islam e il ruolo di ciascuno di noi

di Alessandro Orsini
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Giovedì 28 Luglio 2016, 23:59 - Ultimo aggiornamento: 1 Agosto, 08:38
Il problema non è soltanto l’Islam. Tutti gli integralismi religiosi sono nemici delle democrazie liberali, ma il fatto che la cultura jihadista rappresenti oggi il più grande nemico del liberalismo, impone di andare subito al cuore del problema. La vita di Maometto giustifica la violenza ma giustifica anche la clemenza e il rispetto della vita umana. Questa è la ragione per cui il conflitto tra i musulmani violenti e quelli moderati non avrà mai fine. Ed è anche la ragione per cui, sconfitto un Isis, potrebbe arrivarne un altro.

Per fare chiarezza sul rapporto tra l’Islam e la violenza, occorre chiudere il Corano e rivolgere l’attenzione a ciò che Maometto fece, concretamente, negli anni in cui fu il capo della comunità dei musulmani, da lui fondata. Il Corano, essendo un insieme di parole, giustifica molte interpretazioni diverse circa il rapporto tra l’Islam e la violenza. La vita del profeta, essendo un insieme di comportamenti concreti, non lascia dubbi sul rapporto tra Maometto e la violenza. Tale rapporto è facile da riassumere: Maometto fu un uomo che giustificò, esaltò e utilizzò la forza contro i suoi nemici.

I fatti sono questi. Espulso dalla Mecca, Maometto giunse a Medina, dove trovò tre comunità ebraiche, con cui entrò in urto per il loro rifiuto di convertirsi all’Islam. Da una parte, aveva gli ebrei di Medina, che considerava nemici potenziali; dall’altra, aveva i meccani, che erano i suoi nemici reali. La prima battaglia con i meccani fu combattuta a Badr e fu vinta dagli uomini di Maometto, il quale ordinò di decapitare un prigioniero inerme. La responsabilità dello scontro fu dei musulmani, che avevano assaltato una carovana meccana. Tornato a Medina, Maometto, con un pretesto, cinse d’assedio ed espulse la prima delle comunità ebraiche, con cui fu clemente.

La seconda battaglia di Maometto fu combattuta sul colle Uhud e fu vinta dai meccani. Maometto fu ferito e si diede alla fuga. La responsabilità dello scontro fu dei meccani, che volevano vendicarsi della sconfitta precedente. Tornato a Medina, Maometto cinse d’assedio ed espulse la seconda tribù ebraica. Ancora una volta, fu clemente.
La terza e ultima battaglia di Maometto è nota come la battaglia del fossato. I meccani cinsero d’assedio Medina, ma furono respinti e si ritirarono. Maometto, festeggiato il trionfo, accusò la terza tribù ebraica di avere stretto un’intesa segreta con i meccani e la cinse d’assedio. Dopo una breve resistenza, gli ebrei si arresero e chiesero clemenza. Maometto lasciò che un suo uomo, Sad ibn Muadh, decidesse la sorte di questi prigionieri inermi. Tutti gli ebrei maschi, circa seicento, furono uccisi. Le loro donne, e i loro bambini, furono venduti come schiavi.

In sintesi, durante il periodo di Medina, Maometto condusse tre battaglie contro i meccani: la battaglia di Badr, una località a sud-ovest di Medina, nel marzo 624; la battaglia del colle Uhud, a nord di Medina, nel marzo 625; la battaglia del fossato, nel marzo 627. Le due comunità ebraiche con cui Maometto fu clemente furono quelle dei Banu Qainuqa e dei Banu Nadir. La tribù sterminata fu quella dei Banu Quraiza. Inoltre, una volta entrato da conquistatore alla Mecca, Maometto fece decapitare alcuni suoi nemici personali, che lo avevano osteggiato agli inizi della sua predicazione.

La vita di Maometto giustifica la clemenza e la vendetta; il rispetto della vita dei nemici e la loro decapitazione; il rispetto delle donne e la loro riduzione in schiavitù.

Dal momento che le azioni di Maometto consentono di giustificare sia gli argomenti dei musulmani violenti sia gli argomenti dei musulmani moderati, la democrazia italiana deve saper articolare la lotta contro i predicatori della violenza attraverso tre figure sociali di vitale importanza: gli educatori, i magistrati e i politici di professione. Agli educatori spetta il compito di ricordare il volto umano di Maometto, celando il suo volto severo, attraverso la strategia del “politicamente corretto”, inteso come mezzo di scontro pedagogico. Ai magistrati spetta il compito di rendere più facili le espulsioni dei musulmani con idee violente, ammesso che siano privi dei diritti di cittadinanza. Ai politici di professione spetta il compito di promuovere un tipo di sistema politico, basato sullo slogan: «L’Italia non è un paese per integralisti islamici», attraverso l’approvazione di leggi, finalizzate al contrasto dei processi di radicalizzazione.

La lotta contro il terrorismo islamico non è soltanto un problema dei carabinieri. Un’intera società è chiamata a mobilitarsi.
 
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