Summit a Ventotene/ Quel Manifesto torni a ispirare l’Unione Europea

di Biagio de Giovanni
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Domenica 21 Agosto 2016, 00:01
Nell’agosto del 1941, mentre la guerra stava per diventare mondiale, Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi, nell’esilio di Ventotene, scrissero un Manifesto che sarebbe diventato celebre, e che ebbe per titolo «Per un’Europa libera e unita» che significava, per loro, un’Europa federale.
Intorno a quel testo le date si accavallano, drammatiche. Eugenio Colorni, che lo rivide e ne curò la pubblicazione clandestina nel gennaio del 1944, nel maggio dello stesso anno fu assassinato dai fascisti. Altiero Spinelli, che era stato comunista, e che da quel partito fu espulso, dedicò tutta la sua vita al progetto d’unità dell’Europa. Morì nel 1986, due anni dopo che il Parlamento europeo aveva approvato, su sua iniziativa, il «Trattato che istituisce l’Unione europea» che, per molti aspetti, ha costituito la base per i successivi Trattati effettivamente entrati in vigore. Si tenga molto conto di questo: Spinelli non è solo co-autore del Manifesto, ma anche, nella sua frenetica attività europeista, della prima critica alle sue semplificazioni ideologiche.


Si riparla oggi di tutto questo, in una Europa fragile e inquieta, per una occasione politica che vedrà domani, 22 agosto, Angela Merkel, Francois Hollande e Matteo Renzi insieme, in quell’isola, per ragionare, nella crisi immanente, intorno a nuove idee per una nuova Europa. Non è espressione di uno stato d’animo pessimista prevedere che, in una fase così tesa e difficile, l’incontro finirà più per coprire provvisoriamente dei vuoti che per l’avvio di un progetto rinnovato. Vedremo.

Speriamo solo che non risuonino le trombe della retorica, proprio quelle che Spinelli non avrebbe sopportato. Come guardare oggi a quel Manifesto? Alla rappresentazione del mondo che vi è contenuta, e alla previsione di ciò che sarebbe accaduto, e che solo assai parzialmente si è verificato? Siccome molte osservazioni critiche sono state fatte con delle buone ragioni dalla loro parte, e mi vengono in mente i nomi di Ernesto Galli Della Loggia, Angelo Panebianco, Giovanni Belardelli, vorrei compenetrarmi anzitutto nella condizione umana degli estensori del Manifesto, e dare tutto il significato che merita alla loro capacità di sottrarsi al dramma che li circondava, alle macerie di una civiltà che sembrava dominare su tutto, all’idea di quella “finis Europae” che assillò la mente di un filosofo come Benedetto Croce negli anni della guerra.

Ma come il filosofo nella sua «Storia d’Europa del secolo XIX», scritta nei primi anni trenta, aveva concluso immaginando, nella tragedia incombente, la futura unità di una Europa pacificata, così gli esiliati di Ventotene, a tragedia in atto, ebbero la forza di guardare più in là. Non ci si sorprenderà mai abbastanza di questa capacità del pensiero umano, della potenza della sua immaginazione di liberarsi dalla storia che incombe e in certi momenti quasi assedia. Uno scritto così perché diventa un classico? Per una ragione semplice, perché apre un visuale nuova, e nel cono d’ombra della storia vede qualcosa che pochissimi riescono a vedere.

Non che l’idea federale europea fosse tutta inedita, basti pensare, nel novecento, ai federalisti inglesi e, per l’Italia, agli scritti di Luigi Einaudi già nel primo dopoguerra; ma dire di questo, nel corso della più grande tragedia che viveva l’Europa, non era da tutti. È lì che si impone lo spirito del classico. Il «Manifesto del partito comunista», scritto da Karl Marx nel 1848, che per tanti aspetti ha fallito le sue previsioni, ha però contribuito ad aprire uno spazio della storia del mondo che ha dominato tutto il 900, e oltre. Ogni classico è tale perché apre uno sguardo nuovo sulle cose, non per la capacità di previsione di come le cose avverranno. Se lo giudicassimo con questo metro, l’umanità sarebbe quasi privata dei suoi classici politici. A leggerlo oggi è difficile riconoscere quello scritto come padre dell’Europa che vediamo, ma devo subito aggiungere che lo scarto non è tra un modello perfetto e una Europa incapace di realizzarlo.

Questo tipo di giudizio fa parte di una sensibilità che rinuncia a mettere in moto lo spirito critico, una sensibilità non propriamente spinelliana. La verità è che, nell’atto di pensarlo, Spinelli e gli altri sono travolti dalla esigenza della critica più radicale al totalitarismo, condotta oltre ogni giusto confine. Essi vedono, nello Stato-nazione, l’origine di ogni male, fino al punto da classificare tra i reazionari «chi sceglie l’impegno politico nazionale», chi opera «la restaurazione dello Stato nazionale». Fino a immaginare un partito rivoluzionario di stampo europeo cui affidare la costruzione del progetto federale di una Europa che «dovrà essere socialista», una visione giacobina legata all’epoca.

Questa visione è tanto lontana da noi, e a come la storia ha camminato. È accaduto tutt’altro. Proprio il ritorno degli Stati nazionali, nel nuovo clima del dopoguerra, ha costituito l’anima della rinascita europea. La sovranità dello Stato, in Europa, è legata a doppio filo con la democrazia, un filo che non si poteva sciogliere né con una immaginazione troppo libera e impaziente, né legando irrimediabilmente sovranità e totalitarismo. No, lo Stato moderno ha anche un’altra storia alle sue spalle. Sono stati gli Stati nazionali, le loro classi dirigenti rinnovate, a consentire l’avvio del processo di integrazione nel momento stesso in cui dirigevano il loro potere costituente verso la riorganizzazione di una democrazia nazionale, quel potere che ha tenuto insieme società disperse, annientate, come morte tra le macerie della guerra. E che dovevano tornare a vivere un loro destino comune.
 
Proviamo ora, d’improvviso, a guardare l’Europa di oggi per un ultimo sguardo dedicato a Spinelli. L’Europa federale non fa più parte delle finalità cui puntare. Ma, a un tempo, l’Europa non può esser ridotta a una semplice organizzazione internazionale come tante altre, e Spinelli lo aveva ben compreso. L’Europa è già più di questo, percorsa com’è da tensioni schiettamente costituzionali, proprio quelle che hanno messo in discussione, in questi anni di crisi, il rapporto tra le nostre costituzioni e il sistema integrato europeo, con in gioco la stessa idea di democrazia. Il dilemma è in atto, e la crisi, profonda e di lungo periodo su tutto ciò che forma il disordine mondiale, è tutta da inscrivere in questo contrastato intreccio istituzionale, culturale, politico. Lo Stato-nazione europeo non è destinato a morire, e dove è in crisi lascia dispersione e localismi privi di senso.

Ma proprio lo Stato-nazione deve fare i conti con spazi e istituzioni che si vanno formando oltre di lui, anche in tesa dialettica.
Inutile usare formule riassuntive, poco utile sostituire «confederale» a «federale», diventano schemi illusori, tranquillizzanti. Né qui userò parole di conclusione, lascio aperto il ragionamento, troppe varianti sono in gioco. Di certo c’è la crisi più profonda attraversata dall’integrazione europea, e insieme l’impossibilità di un regressivo ritorno all’indietro verso impossibili autosufficienze. Speriamo che la provvidenza che, secondo alcuni, governa la storia umana, illumini le menti degli uomini di Stato riuniti a Ventotene.
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