Il caso di Vaprio D'Adda/ Difendersi da un ladro in casa non è reato

di Paolo Graldi
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Martedì 20 Ottobre 2015, 23:08 - Ultimo aggiornamento: 21 Ottobre, 00:17
Era inevitabile che la storia del ladro ammazzato a Vaprio d’Adda scatenasse la polemica. Una polemica sulla vasta e mai abbastanza esplorata materia dei furti negli appartamenti, della legittima difesa, del suo eccesso fino all’omicidio volontario e, giù giù, fino ai risvolti psicologici che avvolgono la sfera della paura, della protezione dei propri cari, della propria incolumità.



C’è, in questo maledetto episodio di ordinario disordine che finisce nel sangue davvero tutto, compreso lo sconcerto (motivato per ragioni tecnico investigative) per l’imputazione di omicidio volontario che la Procura della Repubblica ha deciso di attribuire al povero pensionato dopo che, in un primo momento, era apparsa più congrua quella di eccesso colposo di legittima difesa.



Qui il quadro d’insieme è perfino troppo paradigmatico, nel senso che l’insieme delle sequenze ripete un copione già mille volte visto e vissuto. Una tranquilla famiglia con i due anziani genitori, il figlio e la moglie, i figlioletti, distribuiti nei vari piani dello stabile, in una via di villette a schiera, tranquilla, ben tenuta, abitata da gente tranquilla e per bene. Il terreno ideale per una incursione, superando d’un balzo la cancellata ornamentale e incuranti del cartello bianco e rosso: “Attenti al cane”.



La piccola banda s’infila nel giardino, forza una finestra e entra in casa. Francesco S. sente rumori sospetti, ha la pistola (legalmente detenuta) nel cassetto, l’afferra, si fa forza per vincere paura e batticuore e scende dabbasso dove s’imbatte nell’intruso che sciabola l’aria della stanza buia con una torcia. Il colpo, secco, non si sa quanto mirato al bersaglio che si muove, il tramestio della caduta, il rumore della fuga degli altri, due ulteriori colpi per aria e il dramma si compie. Là, a terra, c’è il ladro, un paio di calzini infilati alle mani per non lasciare impronte, senza scarpe per non far rumore, i complici in fuga.



Ha fatto bene, non poteva farlo, la proprietà va difesa anche con le armi, in più c’è l’attenuante che il pensionato aveva già subito altri quattro assalti notturni che gli avevano sconvolto l’esistenza, creato un marasma interiore che s’insinuava nelle sue notti di dormiveglia, di allerta continua, di sottile paura. Insomma anche l’incursione dell’altra notte, in un certo senso, era scritta perché inserita in un contesto di perdurante aggressione alle proprietà quando non alle persone.



Francesco era andato dai carabinieri per chiedere il permesso di detenere quell’arma come segno di sfiducia nella sicurezza assicurata alla collettività ma anche come segno di resa di fronte ad assalti sempre più frequenti e talvolta finiti con inaudite violenze e brutalità. La ricerca della cassaforte, il senso di impunità e la “certezza” di non essere riconosciuti e identificati ci hanno portato come segno dei tempi episodi di assoluta efferatezza nei quali ciascuno, per una parte, si è riconosciuto e ha temuto di potervisi identificare.



Un uomo è stato ucciso ma non a sangue freddo: è stato ucciso dal calore dello sparo sospinto a sua volta dal calore di una paura per sé e per i propri cari, un senso estremo e probabilmente irrazionale di difesa e forse anche di rabbia. Una rabbia condivisa, comprensibile, accettata come risposta adeguata e inevitabile di fronte a un fenomeno che sta stretto all’interno dei distinguo giuridici che, giocoforza, con chirurgica precisione, devono tipizzare ogni caso, incasellarlo in una fattispecie per poi trarne una indagine compiuta e infine un giudizio rispettoso dei codici.



Ci vorrà un po’ di tempo per rimettere a posto, al loro posto, tutti gli attimi della tragedia di Vaprio d’Adda ma è stato chiaro da subito che l’esemplarità del fatto chiama in causa la legislazione vigente pur aggiornata di recente, gli apparati di sicurezza, la rete di protezione sopra i cittadini e i loro beni. Un dibattito infinito che potrebbe, per una volta, privarsi dell’inquinamento propagandistico che si manifesta nella corsa a chi è più duro, intransigente, inflessibile. Rigurgitano in queste ore temi cari a parti politiche che da sempre cavalcano la parte peggiore della complessa e grave questione della sicurezza, della criminalità piccola e meno piccola. Sono contributi di pancia e di fegato, poco di cervello e di saggia freddezza.



Certo, l’emozione è squassante e proprio per questo la asticella dell’equilibrio va alzata. Non ci sono né eroi, né martiri, neppure in questa storia nella quale, purtroppo, tutti escono perdenti, i morti ovviamente ma anche e moltissimo i sopravvissuti la cui esistenza non sarà mai più la stessa. La giustizia faccia il suo corso presto e bene (che è quello che è mancato fino ad ora). La politica politicante, se ce la fa, osservi un ossigenante momento di silenzio. Ma il legislatore prenda atto delle mutate condizioni generali in cui parti della nostra società sono costrette a vivere. Costrette, cioè, a convivere con una criminalità arrogante e a subirne la sanguinaria prepotenza.



Da sole le leggi non risolveranno questo drammatico problema. Ma saperle aggiornare, modificare, adeguare è diventato un imperativo categorico. Nessuno può pensare che per salvare la propria vita in pericolo qualcuno debba poi subire un devastante processo per omicidio volontario.