Turisti e regole/ L’identità violata delle città simbolo

di Carlo Nordio
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Lunedì 24 Ottobre 2016, 00:06
Nel libro XV degli Annales, Tacito descrive Roma come il luogo «dove da ogni parte confluisce e viene tenuto in onore tutto ciò che vi è di turpe e di vergognoso». Il grande storico si riferiva all’invasione delle superstizioni orientali (tra le quali annoverava il nascente cristianesimo) che stavano dissolvendo non solo la religione e la morale ufficiali, ma anche l’identità culturale della città. La quale, sia detto per inciso, era appena stata incendiata da Nerone e stava risorgendo più bella e grande di prima. Ma Tacito non guardava ai marmi che ne stavano sostituendo i mattoni: guardava al cervello e al cuore di quello che oggi chiamiamo il tessuto urbano. In effetti, dopo pochi decenni, quell’impalcatura cominciò a scricchiolare, e quindi crollò sotto l’invasione dei barbari. I timori dello storico si erano rivelati, per il momento, fondati.
Oggi, per fortuna, non vi sono eserciti di vandali bellicosi che minaccino le nostre città. Gli abitanti di Roma, di Firenze e di Venezia non si rinserrano più dietro le mura o tra le acque per respingere invasioni ostili. Al contrario. Se ne vanno progressivamente, lasciando il centro vuoto. Se ne vanno per i costi crescenti della manutenzione, per l’immediato guadagno di una vendita vantaggiosa, per la carenza o l’insufficienza dei servizi, per l’insicurezza connessa a un’immigrazione incontrollata, e per molte altre ragioni. Le statistiche in questo senso sono allarmanti e spietate.
Continuando così, tra pochi anni le nostre città più belle saranno alberghi per turisti ricchi, dormitori per stranieri poveri, e ospizi per anziani disabili. I vecchi romani, fiorentini e veneziani saranno spariti in silenzio, uno ad uno, come gli strumentisti degli “Addii” di Haydn. Alla fine sarà rimasto il primo violino, e spegnerà l’ultima candela.
Questo svuotamento dei centri storici è facilmente percepibile anche dal passeggero in transito, che si limiti a osservare le invasioni mattutine e gli esodi serali, nonché il proliferare dei negozi più improbabili che stanno sostituendo le botteghe tradizionali. Ma lo è ancor di più per chi si sofferma sui dettagli minuti: ad esempio le imposte sempre chiuse, o le tracce di campanelli mai sostituiti. Elementi che possono ispirare compassione per la povertà delle famiglie di allora, costrette a vivere intasate in ambienti pericolanti e malsani. Ma che testimoniano l’irreversibile processo di allontanamento da un ambiente ormai considerato estraneo o addirittura ostile, come se si trattasse di una nuova invasione. Certo, al loro posto talvolta sorgono signorili ristrutturazioni o esclusive boutiques. Ma non saranno queste raffinatezze a salvare l’anima di una città: prima di avere i merletti occorre avere le camicie, e prima del companatico, occorre il pane.
È possibile affrancare i nostri centri storici da questo irragionevole ossimoro di degrado lussuoso? Certo che lo è. Per fortuna lo spirito dell’uomo è libero, e le sue scelte non ubbidiscono a un determinismo cieco. Basta avere l’intelligenza per capire il problema, la volontà di affrontarlo, e la forza politica per risolverlo. E benché il pregio artistico delle nostre città possa sembrare un ostacolo a un moderno urbanesimo, esso è in realtà un ostacolo apparente e ingannevole, perché la gloria della nostra tradizione consiste proprio nell’aver progressivamente adattato il presente al passato, dando vitalità al futuro. Roma, Firenze e Venezia non hanno, come Parigi o New York, uno stile omogeneo. Le architetture vi si sono stratificate, sovrapposte e conciliate, come le abitudini e le mentalità dei loro abitanti. Vi sono dunque buone ragioni per smentire Tacito, che in fondo sbagliò proprio sulla religione: quella che lui riteneva esiziale «superstitio» divenne la Chiesa più gloriosa della storia. A meno che, s’intende, non crolli anche quella.
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