Riina, la guerra per la successione. Il questore di Palermo Cortese: «L’erede non è Messina Denaro»

Riina, la guerra per la successione. Il questore di Palermo Cortese: «L’erede non è Messina Denaro»
di Sara Menafra
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Sabato 18 Novembre 2017, 00:03 - Ultimo aggiornamento: 19 Novembre, 00:10

Renato Cortese, lei ha avuto una lunga esperienza investigativa a Palermo, poi allo Sco ed ora a capo della questura. Cosa rappresenta la morte di Totò Riina “’u curtu” per Cosa nostra?
«Non ci sono dubbi che fino a questa mattina (ieri ndr) fosse lui il capo, nonostante la lunga detenzione. Dunque, la sua morte può avere conseguenze a vari livelli, criminale ma anche di ordine pubblico, del quale mi occupo come questore di Palermo». 

Cosa può succedere?
«È un problema che ci stavamo ponendo anche alla luce delle recenti scarcerazioni. Soggetti di peso, dopo 15 o 20 anni di reclusione, sono tornati in libertà e si stanno riposizionando sul territorio. È vero che Cosa nostra è in difficoltà rispetto al passato, grazie all’impegno di investigatori e magistrati. Ma la sua storia va guardata in prospettiva».

Ovvero? 
«È un organizzazione che ha 170 anni di vita, non basta analizzare gli ultimi quindici o vent’anni per capirla. E se la guardi in prospettiva non puoi non notare i cicli storici che l’hanno caratterizzata. Includono momenti di silenzio, faide, attacchi eversivi alle istituzioni. Oggi Cosa nostra non si mostra con violenza, ma ci ha abituato alla sua capacità di cambiare anche molto rapidamente». 

Si rischia una nuova guerra?
«Oggi i possibili eredi possono essere animati da spinte per riorganizzare i mandamenti. Quando si parla di Cosa nostra non si parla solo di Palermo e Corleone o includendo Trapani, come qualcuno può pensare, secondo me in maniera superficiale. Cosa nostra ha le anime catanesi, nissene, la pancia nell’agrigentino, gli interessi economici della zona orientale. Un capo deve essere capace di mettere insieme identità diverse, lontane anche territorialmente».

Dunque Matteo Messina Denaro non è automaticamente il capo?
«Non c’è niente di automatico. Il trapanese Messina Denaro ha come unica carta il carisma che gli deriva da 25 anni di latitanza. Basta questo per mettere tutti d’accordo, inclusa Palermo? Ad esempio, bisogna vedere sei i palermitani sono ancora disposti a lasciare la leadership a forestieri. Dalle evidenze raccolte, la sua nomina non è scontata». 

Alcuni giornali hanno scritto di intercettazioni che parlano di riunioni in corso tra capi mandamento.
«Paradossalmente tutto può essere stato deciso e noi ancora non lo sappiamo, non ci sono evidenze. Buona parte dei ragionamenti che facciamo sono basati sull’analisi di fatti noti». 

Perché è convinto che la lunga detenzione non avesse intaccato il ruolo di Riina?
«Perché i tanti pentiti che ci sono stati in questi ultimi anni, dall’epoca di Buscetta a scendere, hanno fatto dichiarazioni concordanti sul fatto che la Commissione di Cosa nostra non ha più toccato il punto. Nelle regole della mafia il capo resta tale anche se è ristretto e per suo conto agiscono dei reggenti sul territorio. Chi si muoveva sulla base di questa delega, oggi, ma solo oggi, ha perso il proprio potere. Come sarà determinato un nuovo equilibrio è da capire. I corleonesi hanno preso il potere con mille morti ammazzati e vittime in tutta la Sicilia». 

Ne parla come di un’organizzazione che oggi potrebbe fare altrettanto.
«È in difficoltà, perché i capi sono stati arrestati e il patrimonio gli è stato tolto. Ma Cosa nostra continua a comandare in alcuni quartieri di Palermo e nell’agrigentino, prende appalti, proseguono le estorsioni. L’organizzazione militare è ancora in piedi, sarà in grado di individuare un capo autorevole che tenga in piedi l’intero gruppo? Abbandonerà le pulsioni eversive che hanno caratterizzato la gestione corleonese? Dobbiamo capirlo». 

I loro principali interessi quali sono?
«Gli affari, come sempre, ovunque siano. È persino tornato un interesse nel traffico di stupefacenti, da tempo dominio della ‘ndrangheta. In un’indagine del mese scorso anche un siciliano aveva contatti diretti con i colombiani. Non accadeva da tempo». 

 

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