L’errore di Tiziana che accese la miccia all’incendio del web

di Paolo Graldi
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Sabato 17 Settembre 2016, 00:05
Forte, fortissima l’emozione per il gesto di togliersi la vita, a trent’anni, per disperazione. La macchina del fango può uccidere, sicuramente diviene una fabbrica di dolore ma la colpa è di chi, pur conoscendola, la alimenta irresponsabilmente per poi venirne travolta. È cieca e sorda e vigliacca: chi non la conosce, la eviti.
La vita e la morte di Tiziana Cantone, adesso, appartengono a tutti perché ci chiamano a rispondere agli interrogativi che sollevano e che hanno bisogno di risposte franche, lontane dal vittimismo di maniera, dal lacrimare ipocrita, troppo spesso nutrito di ignoranza e colpevole ingenuità.

Una operazione complessa, quella di guardare i fatti come stanno senza infingimenti, una osservazione certamente cangiante che tuttavia necessita anche di analisi algide, separate dai facili moralismi, lontano dalle litanie codine e fasulle ma anche dalle discolpe a buon mercato del genere: questo sono i social, bellezza. La vita e la morte di Tiziana deve servire a dispiegare una nuova cultura del web, dell’uso del privato che deflagra nel pubblico, nella invincibilità di un oblio preteso e tuttavia non disponibile sfatando stupide ipocrisie.
Errori, errori, errori, dei colpevoli ma anche delle vittime: di quelli si deve ragionare, con pietà ma anche con freddezza perché se la storia di Tiziana è un caso forse unico si fa facendo rapidamente strada la percezione che si possa già parlare di fenomeno.

La rete svela se stessa con inusitata crudeltà perché sputa fuori ciò di cui è nutrita, ospita, elabora e rimette quel che le abbiamo, talvolta ingenuamente affidato. Come in un gioco, una sorta di roulette russa delle parole e delle immagini, racchiuse in una memoria infinita e indelebile. È fatta di un mondo impalpabile che appare dolce, accattivante, includente, quasi un abbraccio silenzioso e morbido ma che può trasformarsi in trappola urlante e mortale.

Tiziana si è infilata nella nassa del web con gioiosa incoscienza, ne ha condiviso i meccanismi, per narcisismo, per rivalsa nei confronti di un ex fidanzato e ha lasciato che uno smartphone entrasse impassibile nell’intimo più intimo, nel gioco erotico da mostrare agli “amici” stretti. Complice di sé stessa e della propria ingenuità questa donna, perché non di una ragazza ma di una donna dobbiamo parlare, si è consegnata al fuoco da essa stessa appiccato e, disperatamente, ha cercato di spegnerlo senza più riuscirvi.

Si è lasciata consumare le forze che ne hanno fatto un essere fragile e senza visione: si è rivolta ai giudici per cercare di cancellare quell’«errore fatale», ma anche da quei banchi ha ricevuto risposte lente e gravi, ritrovandosi a dover pagare come danni arrecati alle parti perfino degli errori di procedura. Un magistrato l’ha condannata alle spese legali imputandole di aver sbagliato una citazione, 20 mila euro, un patrimonio inarrivabile per lei, sbandata, confusa. Fragile due volte: non ha retto all’urto della diffusione incontrollata di quelle sue immagini hot, non ha consegnato all’oblio quegli attimi diventati il suo incubo permanente.

Ci si rende così conto della delicatezza e della spietatezza della dolce macchina dei social, governati da regole inapplicabili, evanescenti, imprendibili. Si afferma, accompagnandola dolorosamente verso un oblio irraggiungibile, che la rete non perdona le trasgressioni, amplificate dalla cattiveria sempliciotta di chi innesca il suo deflagrante furore. Non serve il vittimismo, il moralismo invocativo a rimettere le cose a posto. La tecnologia non aspetta nessuno: è come la tigre, diceva Nicolas Negroponte, o la sai cavalcare o ti mangia.

La piega che certe narrazioni di questo fatto hanno preso non aiuta a capirne la profondità e gli abissi che può raggiungere. Da una parte il morbinoso interrogarsi sul contenuto dei filmati, ferocemente e follemente destinati a cinque amici e traditi con scellerata noncuranza da qualcuno del gruppo che li ha fatti uscire allo scoperto non immaginando, per lo meno per stupidità, che sarebbero diventati virali, sotto gli occhi e il giudizio di chiunque. Un meccanismo acceso proprio dal gesto di Tiziana.

Se per un verso va attrezzata con severità anche penale una giustizia del web, istituendo strumenti idonei al controllo di chi ne infrange le regole, dall’altra serve un Daspo immediato, una espulsione senza appello di chi inquina, avvelena l’immenso pozzo della Rete. Difficile a farsi, lo ammettono tutti gli esperti. Ma la strada va cercata con determinazione e, nell’attesa, l’imposizione di un autocontrollo che sappia evitare l’inoltrarsi nelle sabbie mobili dalle quali non si esce mai più. Le colpe di Tiziana, l’incendio che ha appiccato al suo mondo senza saperlo spegnere, e restandone la prima vittima ci aiuta, almeno, a guardare il brutto per quello che è. E per una volta, senza vergogna. Se il motore di ricerca non si arresta, si fermi almeno il senso del limite.

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