Terremoto, non spopolare il paesaggio della bellezza

di Mario Ajello
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Venerdì 28 Ottobre 2016, 00:23
Non è morto nessuno. Ma scossa dopo scossa, tra sciame sismico e crolli, nella terra che trema sempre e sconvolge tutto, i terremoti del 1984, 1987 e 1997, quello dello scorso agosto e quello di queste ore infinite, è sempre più a rischio la vita di un mito, di una realtà, di uno spazio, di una identità fatta di persone e di paesaggi, di bellezza e di benessere, di storia e di pace francescana.

Cadono posti belli in contesti belli: la chiesa di San Salvatore a Campi di Norcia, la chiesa della Madonna delle Grazie a Preci, il rosone dell’abbazia di Sant’Eutizio e via così. Si affollano gli sfollati da paesini bomboniera. Va in pezzi un’Italia e un’idea di Italia. E sembra quasi di vivere, in queste ore, un rovesciamento. La paura si appropria dell’ombelico della Penisola - l’Umbria, le Marche, queste terre che riassumono uno spirito e uno stile - e il paradiso che ci rappresenta in tutto il mondo si trasforma in un luogo da incubo. La forza di un messaggio culturale e di un modello di vita, fatto di qualità e di appartatezza, di purezza antica e di apertura ai flussi e ai piaceri della modernità, finisce sbriciolata. E provoca dolore questo contrappasso. 

È lancinante l’idea che queste colline di Raffaello, del Perugino e del relax, questi patrimoni dell’umanità con tanto di timbro dell’Unesco, possano mettere ansia. Diventare posti insidiosi e terribili. Provocare un senso di allontanamento e di violenza quando invece hanno sempre avuto la magia di accogliere, di carezzare o addirittura, per un tipo come Mario Soldati, grande esploratore delle radici italiane, dei suoi odori e dei suoi sapori e come lui ce ne sono tanti, di «scatenare il desiderio di essere pittore: come se, dipingendo ciò che vedevo in quelle contrade, avessi potuto scoprire il perché della misteriosa commozione». 

È a rischio di finire questa meraviglia continuamente aggredita? Gli abitanti di Norcia è la quarta volta in poco più di quarant’anni che si trovano a dover ricostruire. Anche se sempre meno, perché sempre meglio reggono gli edifici anti-sismici, ma qui ci sono e lì no, in certe zone dell’Umbria l’adeguamento è completo e in altre meno e le Marche sono un po’ più indietro. E comunque, scossa dopo scossa, a un certo punto la gente di queste terre può non avere più voglia di convivere con la paura e con la precarietà. Ed è esattamente ciò che va evitato. Il pericolo di desertificare uno spazio di eccellenza mentale e reale; di lasciare questi posti che finora hanno attratto residenti inglesi, tedeschi, americani e ultimamente in certe zone anche australiani, canadesi, neozelandesi; dello spopolamento sociale e antropologico di tanti paesi e della loro perdita di centralità nell’immaginario di tutti è una delle punizioni immeritate che il terremoto infligge, senza guardare in faccia nessuno. 

Questi borghi martoriati sono proprio quelli, o adiacenti o affini, che Federico Zeri, ben sapendo l’importanza che contengono, percorse all’indomani del sisma del 1987 e alla vigilia della sua morte nel 1988. Sembra quasi di vederlo il grande storico dell’arte, con la sua mantella e con il sigaro in bocca, che nel suo ultimo omaggio a un’Italia che anche secondo lui, che era laico, rappresenta la prova dell’esistenza di Dio. L’antica via Flaminia, la Valnerina, le infinite frazioncine con le loro chiesette, la piana di Santa Maria degli Angeli sulle orme di San Francesco, gli affreschi di Giotto nella basilica di Assisi, la via per Foligno e poi su verso le Marche. La regione di Rossini, della passione di Bernard Berenson quando scoprì Lorenzo Lotto a Recanati, di Bellini, delle linee dolci del paesaggio e di tanto altro ancora per cui qualche anno fa s’è scomodato Dustin Hoffman per decantarne le lodi in uno spot nel quale legge l’«Infinito» di Leopardi camminando per le strade di Urbino. 

Il rischio dell’abbandono delle cose e delle genti che il sisma produce è tuttavia ampiamente contrastabile. Ovvero non c’è nulla di ineluttabile e molto di gestibile in questa materia. Come sanno benissimo le varie autorità, dal premier al governatore umbro Catiuscia Marini, dal presidente delle Marche al commissario per il terremoto Vasco Errani. Tecnologia, ricerca scientifica, messa in sicurezza degli edifici anche quelli più antichi secondo i metodi e gli standard più moderni sono il vero antidoto allo spopolamento materiale e spirituale. Se finora la popolazione ha retto è perché, dove più, dove meno, ha acquisito competenze nella convivenza con il sisma. Soltanto un surplus di innovazione potrà adesso scongiurare il peggio e riuscendo a ricostruire l’emozione di vivere, di visitare, di immaginare questa parte dell’Italia che è un po’ l’ombelico e l’essenza della nostra civiltà.


 
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