Noi e le catastrofi/ L’invettiva che calpesta la generosità

di Carlo Nordio
4 Minuti di Lettura
Venerdì 20 Gennaio 2017, 00:29
Il responsabile della protezione civile, Fabrizio Curcio, ha detto: «Non faccio polemica, ma chiedo rispetto verso chi lavora in condizioni proibitive; chi tocca il sistema tocca il Paese». Sono parole di amara saggezza. Ma le polemiche non si placheranno, e questo per varie ragioni.
La prima, la più profonda, è la consolidata illusione dell’uomo contemporaneo di poter conoscere, prevedere e persino controllare quello che il filosofo D’Holbach chiamava «Le systeme de la Nature». La nostra educazione, o meglio la diseducazione, ci induce a ritenere che la nostra intelligenza e tecnologia possano renderci arbitri del nostro destino. È un’ingenuità colossale, che la stessa Natura, nella sua imperturbabile indifferenza, si attiva occasionalmente a correggere con qualche avvertimento significativo: in Italia, con l’eruzione del Vesuvio, il maremoto di Messina, e altri episodi minori (minori, s’intende dal Suo punto di vista); nel mondo, con qualche cataclisma epocale, come quello che ha estinto i dinosauri. Qualche spirito inavveduto, anche ricco di titoli e onori, indica nell’uomo il responsabile, o il corresponsabile, di queste stragi.

Responsabile perché ha alterato l’ecosistema, o perché ha costruito in modo scriteriato. Queste domande andrebbero rivolte - se avessimo, come l’anatomista olandese Federico Ruysch, la capacità di parlare con i morti - alle vittime del terremoto di Lisbona, che stavano pregando in Chiesa, o agli innocenti isolani del Pacifico sepolti dalle ceneri del Krakatoa: forse risponderebbero con uno sprezzante silenzio, unico rimedio all’arroganza dei falsi sapienti. Un’arroganza che continua oggi, sotto varie forme, tutte tendenti a trovare, a ogni costo, il responsabile anche delle più inevitabili catastrofi.

La seconda ragione, assai meno nobile, risiede nello sfruttamento a fini politici, economici o semplicemente personali, del senso di impotenza suscitato da queste tragedie. Proprio perché è facile, ed emotivamente comprensibile, che il dolore delle vittime si trasformi in rabbia, è inevitabile che qualche sciacallo tenti di veicolarne le tensioni a proprio profitto. È possibile che qualche reazione sia giustificata da errori e colpe da verificare, correggere e se necessario punire. Ma non è accettabile che davanti a fenomeni unici nella loro gravità e concomitanza, come la sequenza dei terremoti e le valanghe di neve, qualche anima bella si metta predicare quando ancora i morti devono seppellire i morti. Questa non è sensibilità sociale, questa è bestemmia. 
La terza ragione, connessa alle altre due, è la straordinaria propensione del nostro Paese a farsi del male. È un paradosso tutto italiano che, accanto alla più alta concentrazione di volontariato operoso e di generosità solidale, quali emergono dai contributi di energie e di denaro che in questi casi arrivano da ogni parte, conviva una sorta di voluttuoso compiacimento alla denigrazione, al rimprovero e all’offesa di chi, come dice il responsabile della Protezione civile, dovrebbe invece essere sostenuto. 

Il bello (il brutto) è che in questa attività demolitoria e autolesionista si usano argomenti apparentemente validi e convincenti: per esempio che in Giappone le case reggono e qui no. Peccato che Tokio, e le altre città dell’ex Impero del Sol Levante, siano state integralmente ricostruite dopo essere state rase al suolo dalle bombe, e che il poco rimasto indenne fosse fatto di legno e di cartone. Mentre mezza Italia centrale è stata costruita dalla paziente e secolare opera di contadini, operai, monaci e artigiani, con sassi raccolti a mano e la sola speranza, assistita da devote giaculatorie, che la sorte fosse benigna, la terra non tremasse, e cadesse solo la neve bastante alla fertilità dei campi. Si vuol mettere in sicurezza antisismica tutto il nostro patrimonio culturale e abitativo, a cominciare dalle cupole di Brunelleschi e di Michelangelo? Mah!

Concludo. Questo nostro infelicissimo e meraviglioso Paese ha seguito, e continua a seguire, la legge del pendolo. A suo tempo una crescita disordinata e irrazionale, che ha portato il riscaldamento nelle case, il lavoro nelle fabbriche, la transitabilità delle strade a prezzo di interventi ambientali spesso pericolosi e talvolta sciagurati. Oggi, un’ipersensibilità al cosiddetto rispetto della Natura che sconfina nell’incredulità davanti alle sue leggi severe, e nella vana ricerca di colpe da attribuire all’uomo, tanto meglio se è un avversario politico. Va da sé che davanti a un interlocutore così inavveduto, la Natura, come si legge nel famoso dialogo di Leopardi, se lo mangia nella indifferenza più totale.
© RIPRODUZIONE RISERVATA