Lezioni dal passato/ Terremoto, stati generali per superare l’emergenza

di Oscar Giannino
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Mercoledì 21 Giugno 2017, 00:59
A febbraio scorso, abbiamo indirizzato al presidente del Consiglio un semplice appello di sei parole: governo Gentiloni non dimenticare il terremoto. Non ci sfiorava il dubbio che il premier potesse davvero non pensare al dramma abbattutosi dieci mesi e otto mesi fa su 131 Comuni in quattro Regioni del centro Italia. Il verbo “dimenticare”, spiegammo, significava una cosa precisa: commettere l’errore di credere che la macchina distinta dell’emergenza e della ricostruzione fosse avviata ormai efficacemente, e che l’unica cosa da fare fosse assicurarle una sufficiente mole di risorse finanziarie, visto che i danni stimati sfiorano i 24 miliardi. 
Era evidente che non era così, bastava ascoltare le voci dei sindaci dei centri colpiti. Tutti scrivemmo all’indomani del sisma che la lezione del passato andava messa a frutto. Non era possibile replicare le procedure di emergenza in deroga alla legge che in passato hanno alimentato fior di inchieste delle Procure. Questo significava dunque dare una risposta nuova, organizzativa e procedimentale, in termini di diritto amministrativo. 

Chi e con quali procedure avrebbe avuto il timone in mano delle decisioni da prendere in trasparenza e nel minimo tempo possibile, tra sindaci, presidenti di regione, protezione civile e commissario straordinario Errani? Senza una risposta precisa alla domanda, ritardi, inefficienze e caos sarebbero stati assicurati.
Di qui la nostra richiesta: occorreva un esame spassionato della piramide di poteri in campo, e una nuova disciplina basata su più poteri ai sindaci, e su una sola autorità nazionale di indirizzo e coordinamento. 
Purtroppo, la risposta data è rimasta quella dei primissimi mesi, con la nomina del commissario alla ricostruzione prima che ne esistessero i presupposti, e il ping pong tra Comuni, Regioni e autorità nazionali per ogni pratica e decisione da prendere. Il bilancio è ora sotto i nostri occhi. Consegnate solo l’8 per cento delle 3620 casette che dovevano rappresentare le soluzioni abitative d’emergenza per l’inverno. Rimosso solo l’8 per cento dei 2,4 milioni di tonnellate di detriti, che restano ancora nei Comuni colpiti. Non sono ancora terminati i sopralluoghi sulle oltre 200mila unità abitative da verificare, sopralluoghi che in massa sono cominciati solo da fine aprile, mentre tra 5 settimane scade il termine per richiedere i contributi per la messa in sicurezza. Per le casette occorrono 11 diversi passaggi burocratici di soggetti diversi. Tra gli appalti e l’inizio dei lavori di rimozione delle macerie sono passati sei mesi. Ai sindaci non son state concesse deroghe, per tecnici e personale straordinario da destinare ai lavori, rispetto alle ordinarie graduatorie vigenti. Oltre a quattro successivi interventi normativi nazionali, dopo i primi decreti di Renzi, 29 ordinanze commissariali hanno stratificato continue novazioni procedurali. In moltissimi casi giudicate di ancor maggior ostacolo da parte dei sindaci, visto che ogni volta le regole mutavano. 

Le nazioni colpite da grandi sismi sono ricche di esempi di lezioni messe a frutto e di competenze modificate a ogni terribile evento naturale. C’è una copiosa letteratura specialistica a cui fare riferimento. In un Paese normale, quelle modifiche si fanno dopo aver affrontato l’emergenza. Nel nostro caso purtroppo è diverso. Bisogna essere in grado di farle a emergenza in corso, altrimenti l’emergenza si protrae.
Potrarre l’emergenza – di fatto siamo ancora in quella fase, e molto indietro – significa almeno tre cose negative. Estendere l’effetto di sradicamento delle comunità umane dal loro habitat precedente. Accrescere la desertificazione delle attività economiche e d’impresa, senza le quali il ritorno delle popolazioni diviene insostenibile. E rinviare ulteriormente una scelta dolorosa ma necessaria: quella tra la ricostruzione “dov’era e com’era”, o la delocalizzazione degli abitati, per ragioni idrogeologiche, urbanistiche o economiche. All’indomani delle grandi scosse prevalse la prima idea, divenne quasi una parola d’ordine. Al contrario bisogna essere realisti: i secoli di sismi alle nostre spalle, nelle aree a maggior esposizione al rischio di cui l’Italia è purtroppo ricca, provano che a volte e talora anche sovente ricostruire e riedificare altrove è necessario, in maggior sicurezza. 

Dieci mesi dopo, servirebbe dunque ancora più che mai una grande assise, una maxi sessione di lavoro di un paio di giorni tra i 151 sindaci, i presidenti delle Regioni, il commissario, il premier e i ministri competenti. Con lo scopo di stilare l’elenco preciso delle modifiche procedurali necessarie. Da emanare subito. Non stiamo immaginando un soviet cacofonico. Ma un evento di ascolto dal basso che abbia anche, ammettiamolo, l’effetto collettivo di ripristinare e rialimentare fiducia ed entusiasmo. Per sconfiggere la piovra burocratica, madre della rassegnazione e generatrice del fallimento.

Senza di questo, difficile immaginare di vincere domani la sfida ancor più grande. Quella che il governo Renzi aveva denominato Casa-Italia: il progetto pluriennale di messa in sicurezza progressiva del patrimonio immobiliare, culturale, urbano e produttivo delle aree a rischio sismico e idrogeologico. Un progetto che è stato concepito come grande alleanza pubblico-privato, con stanziamenti pluriennali di molti miliardi pubblici ma che mai basterebbero, senza forti incentivi fiscali che mobilitino cittadini e imprese, sia della aree interessate che di tutti coloro pronti a collaborarvi, anche fuori dall’Italia. Pure il fervore su Casa-Italia sembra essersi assopito. In sua assenza, all’impegno di trarre finalmente lezione dagli errori sempre ripetuti dopo ogni terremoto, finirà per non credere né l’Italia né il mondo. 
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