Terremoto ad Amatrice, camper e case fai-da-te: «Non ce ne andiamo, dobbiamo sfamare le mucche»

Terremoto ad Amatrice, camper e case fai-da-te: «Non ce ne andiamo, dobbiamo sfamare le mucche»
di Renato Pezzini
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Lunedì 29 Agosto 2016, 09:53 - Ultimo aggiornamento: 30 Agosto, 08:23
Fervono i lavori nel cortile di casa De Marco. Chi va di pialla, chi di martello, si inchiodano assi di legno, si prendono misure, spingi di qui, spingi di là. Alla fine la «casetta antisismica» viene su, un'unica stanza di una quindicina di metri quadri con una grande finestra dove, da stanotte, padre, madre e figlia potranno finalmente riposare senza l'ansia di nuove scosse e di nuovi crolli. Potevano andare giù, alla tendopoli, affidarsi alle premure altrui: «Ma poi chi accudiva le mucche?».

IL DOPO TERREMOTO E' INIZIATO
Ci sono piccoli luoghi in cui il dopo terremoto è già cominciato. E ce ne sono altri dove hanno perfino deciso che si può fare a meno di aspettare gli aiuti, i pasti caldi della protezione civile, le tende dei campi per i senzatetto, le brandine con le coperte dell'esercito. Specie nelle innumerevoli frazioni che punteggiano la montagna sopra Amatrice, piccoli borghi sbrindellati dalle scosse di mercoledì notte, segnati dai lutti, dalla fatica, per buona parte ridotti in macerie, ma fuori dal fascio di luce dell'interesse mediatico. E, dunque, costretti a rimboccarsi le maniche per andare avanti.
Sommati è uno dei borghi più grandi. E dei più devastati. La famiglia di Fabrizio De Marco ha un allevamento con 70 mucche, suo cugino Ugo ne ha altre 40. Impossibile abbandonarle in attesa di tempi migliori: «Fra due mesi arriva il freddo, dobbiamo prepararci a stare comunque qui se non vogliamo perdere tutto». Da Roma sono corsi parenti e amici a dare una mano, chi cucina, chi da dà mangiare al bestiame, chi ha costruito la casetta di legno per scongiurare altre notti d'angoscia. E chi, non avendo altro da fare, va giù al centro della Protezione Civile per rendersi utile.

SENZA LAMENTI
Non bisogna aspettarsi lamenti, né proteste, né mugugni. Nessuno perde tempo a dire che «ci hanno abbandonati». Anzi: elogiano la rapidità dei soccorsi, la generosità dei volontari, la costanza con cui i vigili del fuoco passano per chiedere se qualcuno ha bisogno di qualcosa. «E poi, quando in un lampo hai perso così tanti amici e parenti, l'unica cosa che ti viene da fare è ringraziare il cielo per averla scampata. E ricominciare» dice Marco. Ha una trentina d'anni, la famiglia sta a Roma e dopo le scosse poteva rifugiarsi lì. Invece con due amici ha piantato una tenda nel prato davanti a casa e insieme provano a recuperare quel che si può recuperare.
Sulla strada che taglia in due la montagna di sassi e tegole che una volta era frazione Cascello c'è il sindaco di Amatrice. In moto. Sta facendo il giro dei borghi, suggerisce soluzioni, prende nota di urgenze e bisogni: «Grazie sindaco» gli dice Annunziata Cincaglioni. Però anche lei ha deciso di restarsene qua con la figlia Iole senza scendere a valle e affidarsi alle cure della «macchina dei soccorsi». Aveva un negozietto di mangimi ad Amatrice, ma adesso il negozietto non c'è più. La farmacia dove lavorava la figlia è polverizzata. Il capannone che - con un progetto finanziato dall'Unione Europea - doveva diventare l'agriturismo Cascello si è afflosciato. Se Annunziata e sua figlia Iole guardano il futuro hanno l'impietosa sensazione di non vederci niente. Però resistono a Cascello. «Abbiamo quattro mucche che mio marito, prima di morire, curava come fossero figlie sue. Erano il nostro hobby, adesso sono la nostra occupazione principale, magari diventeranno la nostra fonte di sostentamento. In un modo o nell'altro bisogna dare fiducia alla vita».

IL CAMPER DI MINO
Difficile trovare le parole per spiegare questa pervicace voglia di restare. Tenacia, orgoglio, concretezza. Forse tutte le cose insieme. E anche l'intelligenza di capire che un giorno gli aiuti finiranno, e che per non ritrovarsi spaesati c'è una sola via d'uscita: «Ricominciare adesso, senza rassegnarsi». Non si rassegna Mario che a 72 anni vive da solo in una bella casa a Collepagliuca, così bella e forte che il terremoto non l'ha neppure sbreccata. Ma lui non ne può più di quei tremolii notturni che tolgono il sonno. E allora i figli hanno messo in moto la loro personalissima macchina dei soccorsi: da Modena è partito un conoscente col suo camper, l'ha parcheggiato nel vialetto di casa, e da stanotte Mario potrà dormirci senza l'angoscia di doversi precipitare giù dalle scale.
Quelli che «fanno da sé» riescono a far andare il mondo all'incontrario, come accade, per esempio, quando sono le vittime del terremoto ad aiutare i soccorritori. A frazione Ritrosi di morti ne hanno contati parecchi, ma dopo le lacrime e la paura Vincenzo (che prima di andare in pensione faceva il vigili urbano a Roma) e i suoi amici hanno rimesso in sesto il circolo ricreativo «La Trasanna». Nella grande cucina Francesca prepara ciclopici pentoloni di minestrone e di pasta al sugo perché all'ora di pranzo arrivano poliziotti, tecnici dell'Enel, infermieri della ambulanze per rifocillarsi: «Vuol fermarsi con noi?». La Trasanna era il cuore della vita di Ritrosi, nelle sere d'estate i bimbi andavano sulle altalene, i vecchi giocavano a carte, i ragazzi ballavano sulla pista in cemento: «Tenerlo in vita vuole dire impedire a tutti noi di morire».

LA COMUNE DI SAN TOMASSO
E poi c'è Mirko, che ha 24 anni e fa il macellaio. A Sant'Angelo, la sua frazione, le case sono venute giù tutte, compresa la sua. Lui ne ha tirati fuori molti ancora vivi, ma anche undici che erano morti. Finito il lavoro è andato ad Amatrice e per due giorni ha scavato pure lì. Per poi rifugiarsi coi genitori nel borgo di San Tomasso dove Francesco - un altro resistente - ha messo in piedi una sorta di piccola comune dove dormono (nelle tende), mangiano, si tengono su il morale a vicenda sotto una veranda dove vecchi e bambini provano a disegnare un domani possibile. Si mettono i caschetti, entrano nelle case diroccate, portano in salvo le cose che possono ancora servire. «Scrivilo: noi ci siamo» sussurra Francesco. Mirko mostra le foto di un amico venuto dell'Aquila che ha dormito all'adiaccio per dargli una tenda sotto cui ripararsi nelle notti gelide di quassù. E mentre lo fa gli si arrossano gli occhi: «Sono cinque giorni che ne parliamo. Non vogliamo darla vinta al terremoto, noi rimarremo qui, vivremo qui. Qualunque cosa accada».
 
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