Studentessa cinese morta/ L'assurda tragedia di chi rispetta la legge

di Paolo Graldi
4 Minuti di Lettura
Sabato 10 Dicembre 2016, 00:05
Voleva riprendersi a tutti i costi la sua borsa “firmata”, da mille euro, un piccolo tesoro anche per lei.  Zhang Yao, cinesina di vent’anni, figlia di facoltosi industriali di Hohhot, una città al centro della Mongolia, a Roma per studiare all’Accademia delle Belle Arti, in quella corsa affannosa, a perdifiato, nell’inseguimento dei suoi tre rapinatori, non s’è accorta di trovarsi su una massicciata proprio accanto ai binari del treno. Quel treno che un attimo dopo l’avrebbe travolta, scaraventata a decine di metri, nascosta in un cespuglio di erbacce.

Stava parlando al cellulare con un’amica. Le raccontava con emozione dell’accaduto, che li stava inseguendo quei tre, che rivoleva la sua borsa, che forse… Come un taglio di mannaia quella conversazione si è interrotta insieme a un sinistro fruscio, il rumore dell’impatto, l’ultimo istante di Zhang Yao.

Minuta, esile si direbbe, ritratta in tante foto che denotano una dolcezza e una grazia innate, la giovane cinese studiava da marzo a via Ripetta, alla Accademia, voleva diventare pittrice, comunque amava l’arte e in poco tempo s’era impossessata di un buon italiano che sfoggiava con una vocetta limpida da usignolo, dicono i compagni, ma anche il barista dove ordinava con quel suo accento carezzevole «capucino e brioches».

Piangono i genitori di Zhang, disperatamente, condotti all’obitorio per il riconoscimento di legge e mentre all’ambasciata della Cina lasciano trapelare grande rammarico per l’accaduto, indugiando su un dettaglio: non è la prima volta. C’è in questa storia qualcosa di terribilmente paradigmatico, qualcosa che racchiude come in un fotogramma di sintesi molti dei mali vecchi e nuovi della città.

La giovane era andata nella mattina di lunedì a Tor Cervara, via Salviati, nell’enorme palazzone anni Cinquanta di un giallo livido osceno per rinnovare il permesso di studio. Quella strada è un esempio plastico, terrificante del degrado: per centinaia di metri i lati della strada sono disseminati di cumuli di immondizia, carte e cartoni, plastiche, materassi, sedie, tavoli, fagotti rigonfi di ogni lerciume, abbandonati, peggio, scaricati lì senza ritegno e senza che nessuno se ne occupi. Degrado chiama degrado, all’infinito.

Neppure gli alti piani degli uffici di polizia da dove, forse, una telefonata potrebbe smuovere qualche squadra dell’Ama. Zhang Yao, ottenuti i documenti richiesti, è scesa in strada e sulla panchina della fermata ha atteso il passaggio dell’autobus per tornare in centro città. Ed è lì che si è compiuta la rapina. Erano in tre, uno forse di colore. Acchiappato l’oggetto hanno iniziato a scappare, cercando di dileguarsi e lei, furibonda, all’inseguimento. In quei minuti concitati abbiamo frammenti del suo stato d’animo perché ha parlato con un’amica, forse con due. Le hanno detto di lasciar perdere, che tanto i documenti ce li aveva con sé, che non valeva la pena di dannarsi nel rincorrerli, quei mascalzoni.

Niente da fare, orgogliosamente, lei non ci stava a mollare ma non poteva sapere che quell’affanno, in un attimo di rabbia di vittima depredata, le avrebbe anche preso la vita. Un’altra tragedia si è compiuta nel solco di una delinquenza diffusa e spavalda, che si spinge fin sotto uffici di polizia per i propri raid. In una zona dove il degrado avanza come uno tsunami, a ondate successive, inarrestabili.

Nei dintorni c’è un campo rom inaugurato nel ’99 dalla giunta Rutelli: doveva restare aperto per sei mesi e poi smantellato. L’incuria capitolina gli ha consentito di allargarsi, espandersi, divorare altro territorio. I rom dicono di collaborare per identificare i colpevoli. Ma anche qualcuno del campo è sotto osservazione. Non da ieri e non senza ragione. Se gli investigatori avranno fortuna capiranno di più sul percorso dei rapinatori e vedremo dove portano le indagini, così come il filmato della ferrovia ci ha mostrato gli ultimi terribili istanti di Zhan Yo, in piedi sui binari.

Qui dal campo rom si levano sempre più di frequente alte colonne di fumo bianco. Bruciano le batterie rastrellate chissà come per estrarre e rivendere il piombo. Ma i bivacchi che hanno trasformato la zona in una circoscritta e tuttavia velenosissima “Terra dei Fuochi” alzano fumo nero denso di diossina, nella disperazione degli abitanti con le loro proteste, le loro denunce. Inascoltate.

Le storie di questo lembo di città che corre vicino all’A24 riporta ai tempi di Salvatore Buzzi e di “Mafia Capitale”, con i grovigli malavitosi di appalti macchiati dalla corruzione e dagli intrecci con dirigenti che adesso, nell’ultima tranche dell’inchiesta della Procura guidata da Giuseppe Pignatone, si vedono indagati per uno sciame di comportamenti penalmente rilevanti. Trame di corruzione a cielo aperto lunghe intere Giunte capitoline.

Storie che rigurgitano vicende come da un pozzo nero inesauribile; figure che per insipienza e più spesso per convenienza criminale hanno consegnato interi pezzi della Capitale al degrado più scandaloso.
Tutto sembra ristagnare e gonfiarsi in un magma che racchiude anni bui e dove personaggi come Odevaine, Buzzi e Carminati hanno giocato d’azzardo con il sistema dell’accoglienza e dei campi rom solo allo scopo di rastrellare bottini.

La triste morte della studentessa cinese che sognava di studiare l’arte a Roma dalla sua Mongolia ci richiama a un severo giudizio. E magari all’impegno di dire un basta definitivo e urgente. Forse ancora si può.
© RIPRODUZIONE RISERVATA