La polemica/Scattone rinuncia alla cattedra

di Paolo Graldi
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Giovedì 10 Settembre 2015, 23:38 - Ultimo aggiornamento: 11 Settembre, 00:04
Anche qui, forse, è il caso di dire: fine pena mai. Nel senso che una condanna segue (perseguita?) chi l’ha subita ben oltre l’espiazione e il recupero sociale. Una condanna diviene così un’ombra di dietro, che ci accompagna oltre ogni espiazione, al di là di ogni redenzione. Il professor Giovanni Scattone, 47 anni, già condannato a cinque anni e quattro mesi per l’omicidio colposo di Marta Russo, uccisa nel 1997 da un colpo d’arma da fuoco mentre passeggiava all’interno dell’Università La Sapienza, aveva ottenuto il ruolo di insegnante di Psicologia presso l’istituto Einaudi di Roma, dopo dieci anni trascorsi da supplente in diverse scuole. La notizia, come in altre occasioni precedenti, ma oggi con grande clamore ha riportato il caso in prima pagina e Scattone, di fronte all’ondata di proteste alla fine ha ceduto: «Se la coscienza mi dice di poter insegnare, la mancanza di serenità mi induce a rinunciare all’incarico».

Una nuova condanna mediatica dopo aver scontato quella dei giudici? Dunque, la riabilitazione del reo, il suo decantato reinserimento nella società, il riscatto anche morale sul male compiuto sono luoghi comuni, dispiegati nel libro delle buone intenzioni e disattesi nei fatti?

Fece una enorme impressione la morte di quella bella studentessa, i libri sottobraccio, freddata da un colpo partito dalla finestra di un’aula. Si parlò, per gli imputati, di ricerca del delitto perfetto avvolto in un delirio di onnipotenza, che tuttavia mascherava infantili e perfide frustrazioni di due studenti, (con Scattone c’era anche Salvatore Ferraro, anch’egli condannato), un gioco a rimpiattino con la morte (altrui) per godere della propria superiore abilità di aspiranti giuristi.

Un delitto ripugnante, certo. Una ferita indelebile per i famigliari, tanto che la madre di Marta, Aureliana, appresa la decisione della rinuncia l’ha definita di buon senso, per riparare una cattedra “assurda”.

Certo, quell’atto di stupida infamità, ha segnato la vita di Scattone attraverso un clamore mediatico che l’ha accompagnato senza sconti anche durante i tentativi di conquistare una cattedra. Percorso accidentato, segnato da prove e rinunce in altalena perenne. Dolore e amarezza, dice il professore senza cattedra e nostalgico degli alunni che lo hanno pure accettato e benvoluto, lo accompagneranno ancora, adesso che è anche senza lavoro. Gli manca, dice ora, la serenità. La materia con la quale sperava di salire in cattedra, psicologia, probabilmente non è il massimo per chi voglia evitare di inseguire i labirinti nascosti nei retropensieri, delle congetture nutrite di malvagità, delle malignità di cui ogni ambiente, purtroppo, si nutre.

La voce del ministro Stefania Giannini consola: «Starei tranquilla se mia figlia fosse nella scuola dove insegna il professor Scattone. Egli ora fa parte di graduatorie, ha espiato la sua condanna, non è colpito dall’interdizione dai pubblici servizi. Il problema è di coscienza».



Sondaggi sul tema, prontamente realizzati per scandagliare gli umori degli studenti forniscono un dato che fa pensare: sette su 10 (portale Skuola.net) hanno dichiarato di non gradire la presenza di un professore come Scattone: «Condannato per omicidio, anche se colposo, mi viene a dire cosa fare della vita: no, non mi piace».

La via dell’insegnamento probabilmente si rivela poco felice per il professor Scattone e gli accidentati tentativi di normalizzarsi, senza lieto fine, dimostrano un volto del Paese assai poco incline a ragionare sul perdono laico, quello già previsto dalle leggi ma che dovrebbe accompagnarci nella via d’uscita permanente dagli errori compiuti e pagati. La violenza, spesso una violenza feroce, insensata, senza nessuna giustificazione, è entrata nel pensare diffuso che si manifesta con una intransigenza che abbatte tutti i confini. L’insicurezza diffusa, la paura impalpabile, la percezione del male latente, nascosto e insieme in agguato, contribuiscono a indurire i giudizi e le aspettative verso il prossimo.



Sono questi segni dei tempi ma anche segnali contraddittori perché se il rifiuto di accogliere Scattone e di concedergli una cattedra lo ha indotto a farne a meno per mancanza di serenità, non mancano gli esempi di personaggi ad alta caratura giudiziaria (qualcuno anche criminale) che si tengono allegramente seggiole, poltrone e scranni senza suscitare scandali e alzare polveroni.

Nessuna simpatia per il personaggio del professor Giovanni Scattone e ben consapevoli che la scuola è un luogo di grandissima delicatezza e responsabilità e dunque chi la frequenta, primi fra tutti i docenti, dovrebbe assicurare la massima garanzia di affidabilità e competenza. È tuttavia spendibile l’argomento che l’espiazione di una pena e il recupero sociale non possono e non debbono restare nel paniere delle buone intenzioni al quale ricorrere nelle austere e solenni celebrazioni di quel diritto al quale tutti dovremmo avere diritti e che tanto spesso, lamentiamo, ci manca.



Perda pure la cattedra in psicologia, professor Scattone, all’istituto Einaudi, ma non perda la speranza che la sua storia di uomo e di aspirante docente, certo macchiata nel passato, non sarà per sempre seguita da un’ombra che le impedirà di aspettarsi una mano tesa: nel segno del rispetto riconquistato.