Un restauro hi-tech per la Sistina di Pisa

Un restauro hi-tech per la Sistina di Pisa
di Fabio Isman
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Domenica 20 Novembre 2016, 00:10 - Ultimo aggiornamento: 21 Novembre, 09:27
Il Camposanto di Pisa è un luogo mitico: ne hanno scritto infiniti autori e «Grandtouristi», ad esempio, il celebre astronomo Joseph-Jérôme Lefrançais de Lalande: «Un luogo singolare, 60 arcate gotiche assai leggere», e avanti a raccontarne le pitture; grande quadriportico edificato dal 1278 da Giovanni De Simone e terminato nel 1350; vi si sono succeduti, per due secoli, immensi pittori. Li elenca Carlo Giantomassi, uno tra i maggiori restauratori italiani: «Taddeo Gaddi, Benozzo Gozzoli, Andrea Bonaiuti, Antonio Veneziano, Spinello Aretino, Piero di Puccio, Francesco Traini e Buonamico di Martino detto Buffalmacco», «citato anche da Boccaccio», ricorda già de Lalande; un lavoro, il suo che, tra Inferno e Giudizio Universale è lungo ben 14 metri; e c’è anche un suo Trionfo della Morte.

LA STORIA
Il Camposanto di Pisa è un luogo tragico: non soltanto perché è un cimitero, ma anche perché, il 27 luglio 1944, una granata incendiò le capriate del tetto: forse, con la distruzione della Cappella Ovetari a Padova, affrescata da Andrea Mantegna, il peggior disastro artistico, in Italia, dell’ultima guerra. I dipinti di Gozzoli, «in buona parte a tempera» (Donatella Zari, la moglie di Giantomassi) a lungo sono rimasti esposti alle intemperie, si sono “slavati”. Il resto, restaurato negli Anni 50, come allora si sapeva.
Il Camposanto di Pisa è un luogo quasi futuribile. Sono in corso nuovi restauri (saranno presentati domani), e, per salvare gli affreschi di Buffalmacco, sono stati adottati principi assolutamente innovatori. Dirige i lavori Antonio Paolucci («La scena del Giudizio Universale è la Cappella Sistina di Pisa»); ha come consulenti la coppia Giantomassi - Zari e Gianluigi Colalucci, che ha restaurato proprio la Cappella Sistina. «Per la prima volta, grazie al Cnr di Bologna, si è usato uno stato di tela, posta tra il telaio e il supporto dei dipinti di Buffalmacco, per preservarli dalla condensa», dicono marito e moglie; sono esposti sotto un portico, e c’era questo rischio. 

TECNOLOGIA
«La tela, analoga a quella che viene adottata per scaldare in pista i pneumatici della Formula 1, aumenta automaticamente la temperatura di un grado, o due, quando questo è necessario». Siamo tra la tecnologia e la fantascienza. Anche perché gli affreschi, dopo la guerra erano stati fissati a pannelli di eternit, che andavano rimossi: contengono amianto. Ed erano pieni di colle animali; mentre la caseina, allora in voga per rintelarli, era malmessa. 
Anche qui, siamo al futuro: «L’Università del Molise ha allevato speciali batteri, con una dieta apposta. Si abituano a nutrirsi soltanto di un certo cibo, e non mangiano altro. In questo caso, le colle e la caseina; e anche questo non era mai successo». Così, una grandissima palestra dell’antico si trasforma in un laboratorio assai progredito del futuro. 
Nel restauro, del resto, l’Italia è ai vertici, da quando Cesare Brandi e Giulio Carlo Argan ne fondarono l’Istituto nel 1930, con i quattrini ottenuti grazie a una mostra negli Stati Uniti voluta dal fascismo. E in questo modo vengono salvati i dipinti di un luogo assolutamente unico e memorabile, che già soffrivano fin dai tempi antichi: «Nel 1371 e ’72, i primi restauri per l’umidità», ricorda Giantomassi. Già nel 1765 il luogo era memorabile; de Lalande ricorda «la vergognosa di Campo Santo, una ragazza che guarda un giovane facendo finta di coprirsi il viso».

DANNI
Da allora, i restauri non sono mai finiti. E sono divenuti ancora maggiori dopo la bomba (alleata) del 1944: brucia il tetto; il calore fonde la copertura in piombo, che cola sui sottostanti dipinti, rimasti allo scoperto, un autentico disastro. Furono subito strappati e rintelati, nel modo che allora usava. La tecnica, infatti, ha compiuto dei passi, come usa dire, da gigante. «Certi sistemi che pochi anni fa sembravano sicuri, si sono dimostrati dannosi», racconta Antonio Paolucci. 
È stato il caso del Paraloid, sostanza che a lungo è stata usata nei monumenti; come dei telai in eternit, e tanto altro. Nel 1848 erano stati già staccati 1.016 metri quadrati di pitture, 34 Storie: per dare misura di quale palinsesto il Camposanto sia. I lavori compiuti sono stati lunghi e difficili condotti dalle maestranze dell’Opera primaziale. Per i più curiosi, i batteri allevati apposta nel Molise hanno un nome singolarissimo: Pseudomonas Stuffzeri A2g; contiene anche quattro lettere: il cognome di Federico che è stato uno dei massimi studiosi d’arte; chissà se per caso, oppure a bella posta.
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