Referendum trivelle/Il cortocircuito che fa male alla crescita

di Oscar Giannino
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Sabato 2 Aprile 2016, 00:29
Il caso politico del ministro Guidi si è risolto giovedì con le sue dimissioni entro poche ore. Ma già si possono fare tre osservazioni: sulle dimissioni, sul referendum del 17 aprile, e sulle conseguenze già prodottesi. Federica Guidi è caduta su un classico caso di conflitto d’interesse. La sua decisione di lasciare l’incarico è conseguenza di una valutazione condivisa con il premier Renzi. Quelle telefonate nelle intercettazioni disposte dalla procura di Potenza rendevano immediatamente opportuno sgombrare il campo da ogni polemica. Ed è stato meglio così. 
Ci penserà la magistratura a valutare se il compagno della Guidi ricada o meno nella fattispecie penale dell’improprio traffico di influenze, prevista dall’articolo 346-bis del codice penale. E cioè se grazie alla via preferenziale d’accesso al ministro abbia ottenuto norme favorevoli a un progetto che interessava a Total, e se grazie a ciò abbia conseguito l’indebito vantaggio patrimoniale di divenirne possibile fornitore. Ma politicamente la posizione del ministro e del governo sarebbe stata una piaga aperta, se non si fosse proceduto a dimissioni subito. 

Il conflitto d’interesse si dimostra ancora una volta problema numero [/CAPOL6R-1CR]uno della vita politica italiana. Ed è ancor più rilevante se a incorrervi è un ministro imprenditore, con l’azienda di famiglia attiva nel settore dell’energia. 
Spiace per la Guidi, che è stata un ministro molto attivo a centinaia di tavoli di gestione di crisi d’impresa, e che aveva presentato 15 mesi fa una buona legge per la concorrenza e le liberalizzazioni, che il parlamento ha smontato in buona parte. Ma fa testo una gran lettera che Quintino Sella scrisse al fratello Venanzio il giorno prima di assumere l’incarico di ministro del Tesoro, lasciando alle sue mani l’impresa di famiglia. Ti chiedo un impegno d’onore, gli disse: finché durerà la mia permanenza al ministero, prometti di non chiedere alcun contratto al governo. Il problema non è di oggi, visto che era il 1864. 
 
GLI OBIETTIVI
Ma veniamo al referendum. Una cosa è certa: le dimissioni del ministro Guidi non c’entrano nulla con le ragioni favorevoli o contrarie al referendum. E per quanto sia ovvio che i proponenti e la politica si appiglino a tutto pur di recuperare consensi a proprio favore, si tratta in ogni caso di un tentativo strumentale. 
La realtà è che purtroppo il quesito referendario sopravvissuto all’esame della Corte costituzionale ha un impatto limitatissimo rispetto alla questione che era sollevata dall’iniziativa referendaria promossa dalle Regioni con 6 quesiti. E lo ha capito benissimo la stragrande maggioranza dei governatori del Pd del Centrosud, che infatti si sono nettamente distinti dai toni oltranzisti che continuano invece a essere usati una minoranza dei proponenti. 
Il quesito riguarda infatti la richiesta di non far più durare la concessione estrattiva per l’intero arco temporale del giacimento. Ma nel frattempo l’iniziativa è riuscita a far cambiare posizione al governo, che da quando aveva riaperto a ricerche ed estrazioni di fonti fossili con il decreto sblocca-Italia nel 2014, ha fatto marcia indietro con la legge di stabilità 2016, salvando solo le concessioni già attive. Assumendo l’iniziativa referendaria nelle Regioni invece di discuterne prima nel Pd, i governatori referendari hanno di fatto impedito che scelte energetiche di tanto impatto avvenissero dopo una seria e accurata discussione, in un paese al 90% dipendente per il suo fabbisogno da importazioni energetiche estere, e da paesi assai problematici come Russia e Algeria.

GLI EFFETTI
Delle 135 piattaforme marine presenti sul territorio italiano a fine 2015, quelle entro le 12 miglia oggetto del referendum sono 92, di cui attualmente 48 eroganti e rispondenti a 21 diverse concessioni. Dunque il presunto referendum “contro le trivelle” riguarderà tra queste solo il possibile effetto di farne smettere l’attività – con rilevanti problemi e rischi per il suggellamento - allo scadere della concessione invece che ala fine dei bacini estrattivi. Un effetto calcolabile dunque intorno all’1% del fabbisogno nazionale, rispetto al 10% complessivo di fonti estratte in Italia. 
Eppure, in caso di quorum raggiunto il 17 aprile e vittoria del fronte abrogativo, le conseguenze sarebbero rivendicate ed estese all’intero complesso delle estrazioni nazionali. Nel tentativo – diciamo le cose come stanno - di far perdere il lavoro a circa 30mila addetti diretti e in filiera, con un danno complessivo diretto stimato da Nomisma per oltre 5 miliardi di euro nel solo Sud del Paese. La comunità degli oltre 6 mila lavoratori del distretto adriatico oil e gas di Ravenna ha perso giustamente la pazienza, e di fronte alla strumentalizzazione referendaria ha intrapreso azioni pubbliche per far capire agli italiani che cosa davvero è a rischio. Si badi bene che quei 6mila sono tutti aggiuntivi rispetto ai dipendenti ENI, che a propria volta verrebbero colpiti all’effetto a cascata di un’impropria strumentalizzazione dell’esito referendario. Ma né della dipendenza energetica italiana, né dei lavoratori della filiera, né degli effetti sul Sud già disastrato sembra importare molto alla polemica referendaria. Naturalmente incentrata su “più rinnovabili sussidiate dallo Stato”. 

I NODI<QA0>
In più, dall’intera confusa vicenda referendaria e dalle indagini giudiziarie in corso, abbiamo inflitto un’altra botta di credibilità internazionale alla possibilità stessa che multinazionali del settore ritengano possibile e conveniente operare nel nostro paese. A cominciare dalla Total coinvolta nella vicenda che ha portato alle dimissioni della Guidi, ma in realtà vale per tutte le straniere che abbiano concessioni in Italia. Non è davvero il modo di attirare capitali stranieri. E il peggio è trovarsi con tutti questi danni senza averne neanche discusso in maniera seria. Finora, dunque, un pessimo bilancio. Per evitare che peggiori, ci pensino gli italiani: che certamente hanno più buon senso. 
 
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