Prime condanne e archiviazioni: due anni di sfida su Mafia Capitale

Prime condanne e archiviazioni: due anni di sfida su Mafia Capitale
di Valentina Errante
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Mercoledì 30 Novembre 2016, 08:48 - Ultimo aggiornamento: 1 Dicembre, 09:09


ROMA «Stai tranquilla, ci vediamo tra due anni». Chissà se lo pensava davvero Massimo Carminati, salutando la moglie Alessia seduta nella Smart in una stradina di campagna a Sacrofano. Dietro di lui Carminati aveva la canna di un fucile e un carabiniere dei Cacciatori di Sardegna che urlando «Scendi da questa macchina» fermava la prima immagine di quella che diventerà la vicenda politico-giudiziaria che ha squassato un sistema compromettendo l'immagine della Capitale. Era il due dicembre 2014. Due anni fa esatti, per l'appunto.

IL BLITZ
Con Carminati finirono in carcere altre 36 persone. Tra loro molti protagonisti della gestione della Capitale come l'ex ad di Ente Eur Riccardo Mancini, l'ex vicecapo di gabinetto del Campidoglio Luca Odevaine, l'ex ad dell'Ama Franco Panzironi, l'ex dirigente del servizio giardini del Comune di Roma Claudio Turella e il dirigente dell'Ama Giovanni Fiscon. Oltre alle manette, fioccarono gli avvisi di garanzia, un centinaio; li ricevettero l'ex sindaco di Roma, Gianni Alemanno; l'assessore alla casa della giunta Marino, Daniele Ozzimo e il presidente dell'assemblea capitolina Mirco Coratti, entrambi del Pd.

IL SISTEMA
L'inchiesta raccontava che la Capitale era in mano ad una mafia nuova, autoctona, che aveva mutuato i sistemi criminali dei clan siciliani e calabresi ritagliandoli su misura per Roma. Insomma, Massimo Carminati e Salvatore Buzzi, il Campidoglio se lo erano comprato, spesso a tariffe modiche. Avevano i soldi, e tanti; sapevano che un busta con cinquemila euro apre qualsiasi porta se infilata nella tasche di un dirigente che ne guadagna duemila. Sapevano che ancora più efficaci sono i pacchetti di voti, raccolti prima per i politici del centrodestra e subito dopo per quelli del centrosinistra. E non è un caso che nella lista di imputati ci fossero esponenti dell'una e dell'altra parte, come Luca Gramazio (arrestato in una successiva operazione), Riccardo Mancini e Franco Panzironi, e poi Mirko Coratti, Daniele Ozzimo, Luca Odevaine, oltre a numerosi funzionari della giunta Marino, come Emanuela Salvatori, Gaetano Altamura, Rossana Calistri, Bruno Cignini, e altri ancora.
POLITICA ASSERVITA
«Questi devono essere i nostri esecutori, devono lavorare per noi», diceva Carminati al suo sodale Buzzi, seduto ai tavolini del bar Vigna Stelluti e intercettato dal Ros dei carabinieri. E «questi» erano i politici ma non solo. Erano gli imprenditori agricoli che dovevano cedere i terreni; i venditori di automobili che dovevano pensare al parco macchine della banda; erano i commercialisti che dovevano nascondere dentro scatole cinesi societarie la titolarità di negozi e ristoranti comprati con i soldi della droga. E se non bastavano le migliaia di euro che Buzzi distribuiva a piene mani, allora Carminati passava la mano ai sodali di un tempo, agli amici dal coltello facile e con la mano pesante. Come Riccardo Brugia e Matteo Calvio. Era questo il sodalizio del Mondo di mezzo, teorizzato in romanesco da Massimo Carminati.

L'OCCASIONE
Viste le premesse e la mole di atti giudiziari, Mafia Capitale poteva essere una grande operazione pulizia, e anche l'occasione per ricollocare in mani sicure servizi pubblici importanti, dalla cura dei parchi alla sorveglianza dei campi rom, dalla manutenzione stradale alla raccolta di rifiuti. Invece, da quel 2 dicembre 2014 il bilancio della procura è ancora tutto da scrivere. I pm hanno scommesso tutto sull'accusa di associazione mafiosa, che innerva tutto il processo, caratterizzandolo. E punta quantomeno ad ottenere la condanna anche per il 416bis per gli imputati principali, Buzzi e Carminati. Nel frattempo, però, altri imputati di primo livello hanno scelto riti alternativi, patteggiamenti e riti abbreviato. Come Daniele Ozzimo, il doppiogiochista per eccellenza della banda di Mafia Capitale, quello che Buzzi definiva «il contatto migliore che abbiamo» in seno alla giunta Marino. Ha preso una condanna minima: due anni e due mesi per corruzione, ed è a casa. Oppure come Luca Odevaine, il famoso lanciatore di pizzini avvelenati, l'uomo che inventava accuse per ingraziarsi la clemenza dei pm e ottenere la scarcerazione. Si era venduto alle coop di Buzzi per ventimila euro al mese; è a casa anche lui, con l'obbligo di firma e una condanna patteggiata a due anni e otto mesi per corruzione. Gli hanno richiesto indietro 250mila euro di tangenti accertate e comunque resta imputato per episodi di falso e turbativa d'asta. Per il resto, la procura ha incassato finora altre sette otto condanne e ratificato altri quattro patteggiamenti. Un secondo processo con 27 imputati è già incardinato e comincia tra 15 giorni. E ancora, in questi 24 mesi trascorsi la procura ha sequestrato beni per 350 milioni di euro. E altri 21 milioni sono stati chiesti dalla Corte dei Conti agli amministratori pubblici inquisiti. Dall'altra parte, il dibattimento ha portato a verificare l'inconsistenza di una serie di indizi che ha portato all'archiviazione di i sono poi tradotti nell'archiviazione 116 diversi episodi, descritti nell'ordinanza di custodia cautelare. Tra questi c'è Maurizio Venafro, ex capo di Gabinetto di Nicola Zingaretti, prosciolto dall'accusa di turbativa d'asta.

L'INCOGNITA
Ma aldilà di questi procedimenti collaterali, è chiaro a tutti che il vero processo, quello che vede imputati Buzzi e Carminati si giocherà nei prossimi mesi sulla tenuta dell'accusa più grave, quella di associazione mafiosa, che portò lo stesso comune di Roma ad un soffio dal commissariamento per infiltrazioni mafiose. L'impianto accusatorio ha certamente retto il primo esame della Cassazione, che ha confermato il 416bis per tutti gli arrestati. Poi, nei mesi successivi è cambiato qualcosa: per l'ex sindaco Alemanno è caduta l'accusa di associazione mafiosa ed è rimasta quella di corruzione e finanziamento illecito. Lo scontro sta proseguendo in aula, con gli avvocati difensori che portano avanti la tesi secondo la quale i loro assistiti sarebbero imputabili solo di corruzione semplice. E la scorsa settimana hanno incassato la testimonianza dell'ufficiale del Ros che ha incardinato l'inchiesta: «Fino al febbraio del 2013 non ho riscontrato episodi contro la pubblica amministrazione di stampo mafioso. Non ho mai detto alla Procura che Buzzi facesse attività di stampo mafioso». La procura ha ancora carte da giocare, ad esempio i numerosi episodi di intimidazioni di stampo mafioso subite la imprenditori e manager pubblici, messe in atto secondo le modalità tipiche delle cosche. Oppure i messaggi in codice fatti pervenire in cella a dirigenti pubblici appena arrestati, per convincerli a non rivelare nulla del sodalizio criminale. Tutte carte che di qui a poche settimane serviranno a chiarire il Dna di questa inchiesta, per la quale è stato evocato l'esempio di un precedente: il maxiprocesso a Cosa Nostra celebrato a Palermo negli anno 80. Solo la sentenza prevista per la tarda primavera potrà confermarlo.
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