Omicidio di Vasto/La sentenza dice no alla giustizia fai da te

di Paolo Graldi
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Sabato 25 Marzo 2017, 00:05
Nessuno, mai, per nessun motivo può farsi giustizia da sé. A questo ineludibile principio dello Stato di diritto si rifà la sentenza che ha condannato a 30 anni di reclusione Fabio Di Lello. 

La corte d’Assise di Lanciano lo ha ritenuto colpevole di omicidio volontario premeditato per l’uccisione del ventunenne Italo D’Elisa. La pubblica accusa aveva invocato il massimo della pena - l’ergastolo - ma si è applicato lo “sconto” previsto dal rito abbreviato. Il caso giudiziario, per le sue molteplici implicazioni, va oltre l’approdo al primo grado di giudizio.

Qui siamo nel cuore di una tragedia infinita che si è dipanata nel tempo nutrendosi di un odio collettivo, strapaesano, una sorta di allucinazione vendicativa che ha quasi invocato l’esito fatale. I fatti, nella sequenza che li ha dispiegati, si possono racchiudere in poche date e alcuni fotogrammi. D’Elisa, 22 anni, volontario della protezione civile passa col rosso in una via centrale di Vasto: un bruttissimo incidente che coinvolge Roberta Smargiassi, che è su uno scooter. Ferite gravissime, poi il decesso. Aspettava un bambino. Omicidio stradale è l’accusa per il giovane che resta a piede libero.

Di Lello non si dà pace, si dispera. Panettiere, amante del calcio, viene sospinto in un pericoloso tunnel. In città compaiono grandi striscioni gialli: “Giustizia per Roberta” e la foto di lei, bella, sorridente, uno sguardo pieno di gioia e di vita. Si squaderna pubblicamente l’album di una coppia felice, in vacanza al mare, sulla neve, selfie ovunque da turisti appassionati. Un grande ritratto avvolge il marmo della tomba e lui, Fabio, ogni giorno porta fiori freschi, in un pellegrinaggio che non placa un furore montante. Sui social cresce una campagna d’odio contro quel ragazzo “che ha ancora il coraggio di farsi vedere in giro”, come gli dirà il suo assassino poco prima di sparargli addosso tre colpi di una calibro 9 che trasforma il rancore in delitto, l’odio in sequenza di morte annunciata. Premeditata. Poi, come dentro una sequenza tutta esasperata ed esagerata il gesto di portare l’arma avvolta nel cellophane sulla tomba della moglie, come gesto estremo d’amore, sigillo di una vendetta compiuta nel nome di una “giustizia” senza Giustizia. Non pochi, in questa città in provincia di Chieti, gli stessi che si strinsero intorno alla bara di una giovane donna falciata dalla colpevole arroganza di un automobilista sconsiderato, avranno tempo e modo per riflettere. L’uomo che ha ucciso nel nome di una legge che non c’è e non si può invocare è stato se non sospinto almeno sostenuto nel suo cammino di odio da tanti abbracci, da tanti motti rancorosi e volgari, da tanta stupida superficialità.

Anziché cercare una riconciliazione tra loro nel nome di una giustizia che stava facendo il suo corso in tempi ragionevolmente rapidi, quasi esemplari, si è lasciato che soffiasse il vento della vendetta, considerando che la giustizia sarebbe arrivata chissà quando, con mano leggera e generosa, pronta a facili perdoni. Una prospettiva, a guardare i fatti, che non corrisponde alla sequenza dei riti giudiziari applicati a questo processo. Non ci sono state indulgenze e neppure colpevoli ritardi, non in questo caso. Si è preferito dare retta a un sentimento diffuso di sfiducia nella macchina giudiziaria e nei suoi responsabili: un modo di sentire severo e non sempre privo di fondamento. Anzi. Non in questa storia. Qui andava fermata l’onda del rancore e del disincanto, annegati da un dolore insopprimibile: “Voi non potete capire che cosa sento dentro”, ripeteva ossessivamente il panettiere in ogni dove, in casa, con gli amici, alla ricerca di un momento fatale, definitivo.

Oggi, anzi ieri, quel giovane, Italo D’Elisa, sarebbe stato condannato per il grave reato; e invece con il peso di un delitto accarezzato come gesto d’amore davanti ai giudici ci è andato Fabio Di Lello, un uomo spezzato doppiamente dalla spirale di una violenza insensata.
La legge, giustamente, non ammette scorciatoie e nessuno, se non i giudici, può decidere di emettere sentenze. E tuttavia c’è un verdetto che non si recita in un’aula di corte d’Assise e che si racchiude in una domanda terribile: davvero quel sangue versato poteva essere risparmiato soccorrendo la disperazione che stava trasformandosi in vendetta? Adesso c’è chi si lamenta: doveva prendersi l’ergastolo. Il rito abbreviato fa scendere a trent’anni il peso della condanna. Ma anche trent’anni sono quasi una vita, se si ha il coraggio di sopportarne la pena.
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