Noi e la Ue/Non accettare le regole che ci ingabbiano

di Alessandro Campi
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Giovedì 13 Luglio 2017, 00:09
C’è qualcosa che non quadra nel rapporto dell’Italia con l’Europa. Ma forse c’è qualcosa che non va nel modo di funzionare dell’Europa. E non si tratta soltanto della troppa burocrazia o dell’algida autoreferenzialità di cui danno spesso prova i suoi organi politici e di governo. 

C’è piuttosto un problema di sordità politica e di mancanza di visione storica. Al quale si aggiunge il mito – sì, il mito – di un’eguaglianza perfetta tra i suoi membri che se ha un astratto fondamento giuridico, non ha alcun significato dal punto di vista economico e politico: l’Italia (in primis dal punto di vista del suo sistema produttivo) non è l’Olanda, come la Spagna non è la Danimarca o la Grecia. L’equivalenza formale tra gli Stati membri (salvo accettare nella sostanza lo strapotere politico-finanziario della Germania) suona davvero come un’ipocrisia che prima o poi bisognerà superare. 

La difficoltà dell’Italia è presto detta: stentiamo a farci sentire. Anche quando abbiamo, come nel caso dell’immigrazione incontrollata dall’Africa che da mesi si riversa sulle nostre coste, tutte le ragioni. 

Se al momento da Bruxelles arriva uno spiraglio sul deficit (che potrebbe alleggerire la prossima manovra), l’ultima richiesta respinta dall’Europa al mittente è stata quella avanzata da Renzi di un aumento del deficit pubblico italiano al 2,9% del Pil per un quinquennio (invece che inseguire il pareggio di bilancio) e di un rinvio della riduzione del nostro stellare debito pubblico. Siamo un Paese che non cresce da anni, anche a causa dei pesanti vincoli finanziari che ci siamo obbligati a rispettare, e che proprio per questo continua ad avere un alto debito pubblico. Ma da un quarto di secolo, a dimostrazione della nostra complessiva affidabilità come Paese debitore, abbiamo l’avanzo primario pubblico più alto tra le economie occidentali, ottenuto a colpi di tagli sul bilancio dello Stato (a partire dagli investimenti pubblici) e di aumenti delle tasse su cittadini e imprese. Date queste condizioni, la richiesta di un allentamento delle politiche di austerità e rigore, come condizione indispensabile per far ripartire l’economia e dunque abbattere realmente il debito, poteva almeno essere discussa e presa in considerazione. Invece ha ottenuto il diniego arcigno dell’olandese Jeroen Dijsselbloem, l’attuale presidente dell’Eurogruppo. 

Ma perché non ci ascoltano anche quando le nostre richieste sono ragionevoli? Colpa certamente degli stereotipi negativi che storicamente ci accompagnano: ci considerano un popolo di allegri spreconi, simpaticamente anarchico e nella sostanza poco serio, che sbraita ma non morde. Ma molto dipende anche da una certa nostra debolezza negoziale, frutto di una cultura dell’interesse nazionale che manca alle nostre élites e che spesso ci ha portati a sottoscrivere o avallare, senza calcolarne le giuste conseguenze, accordi vantaggiosi per gli altri, meno per noi: dal Patto di bilancio europeo siglato nel 2012 (il cosiddetto Fiscal Compact, divenuto persino un vincolo inserito in Costituzione) alla procedura di liquidazione per le banche in crisi, fino al Trattato di Dublino revisionato l’ultima volta nel 2013, per fare tre soli esempi legati alle discussioni e polemiche di queste settimane. 

Ma a questo si deve aggiungere un modo d’essere dei vertici istituzionali dell’Europa che è divenuto insopportabile, oltre che sul piano politico, anche su quello dello stile. Per un Paese come l’Italia – storico membro fondatore del consorzio europeo, ma ormai questa è solo una rivendicazione pateticamente retorica – è come sentirsi sempre sotto osservazione e sotto esame. Ѐ come dover stare sempre col cappello in mano a pietire un favore, uno sconto o un aiutino che tra l’altro nemmeno arriva. Anche psicologicamente è una condizione frustrante quanto ingiusta, che dice molto sulla debolezza ad occhi esterni della nostra classe politica, ma anche su un’Europa che non negozia o contratta, ma sembra concedere dall’alto e dispensare secondo la sua assoluta discrezionalità, con modalità paternalistiche ingiustificate. Un modo di fare decisamente sbagliato, che da solo basta a spiegare il vento del nazionalismo che ha ripreso a soffiare sul continente.

La verità è che le regole che l’Europa si è data a partire da Maastricht (1992-3) nell’attuale contesto non funzionano più e si stanno rivelando, come nel caso del Fiscal Compact, persino controproducenti: deprimono l’economia dei Paesi invece di stimolarla. E dunque bisognerebbe avere la forza di modificarle. Di sicuro non convengono più all’Italia, che dunque fa bene a metterle in discussione senza per questo venire meno al suo storico impegno europeista. Il rigido formalismo col quale sino a poco tempo fa si è risposto ad ogni richiesta di cambiamento dei Trattati europei forse dipende anche dalla grande paura che attanaglia le élites tecno-politiche che hanno costruito l’Europa con metodi spesso da apprendisti stregoni chiusi in laboratorio: la paura cioè che toccando qualcosa di questa costruzione, anche un solo mattone, poi crolli tutto. Ma se l’Europa è un prodotto della storia e della politica, non una struttura ingegneristica artificiale, se ne deve dedurre che cambiando scenari e contesti, interessi e rapporti forza, esigenze e attese, debbano modificarsi anche le regole, le procedure e gli accordi che ne determinano il funzionamento.

Che degli interventi sul contenuto dei Trattati europei siamo ormai necessari di recente lo hanno ammesso anche Angela Merkel ed Emmanuele Macron; senza però spiegare come, con che tempi e su quali temi, segno che forse volevano solo dare un contentino mediatico ad un’opinione pubblica sempre più inquieta e a qualche Stato in fibrillazione come il nostro.

Per tornare a Renzi, la sua proposta di messa in mora del Fiscal Compact segnala un cambio di passo che ha a che vedere non solo con la consapevolezza che l’Italia deve ritrovare ma anche col mutato quadro geopolitico (pensiamo solo a come è cambiato l’atteggiamento degli Stati Uniti di Trump nei confronti dell’Europa unita). C’è solo il problema che tale proposta al momento non ha alcuna base legale per essere accettata. E non potendo l’Italia agire in violazione degli accordi che ha (con troppa leggerezza) sottoscritto, possiamo solo chiederne una profonda e veloce revisione. Salvo sfidare con i fatti, adottando le misure magari invise a Bruxelles ma da noi ritenute giuste. Lo stare in Europa ha senso a certe condizioni, non a condizioni capestro che avvantaggiano i soliti noti. Del resto, i Trattati come i patti possono essere disdettati o disattesi davanti a condizioni mutate (e qui ce ne sono tutti gli estremi).

A condizione, naturalmente di avere il coraggio leonino che il momento storico richiede: qui si apre una partita politica che richiede non proclami o vaghe minacce, ma costanza nelle proprie richieste, ricerca di alleanze internazionali, fermezza negoziale, capacità di formulare proposte innovative, unità tra le diverse forze politiche italiane in nome dell’interesse nazionale.

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