Dietro quei colpi/I giorni folli dell'insicurezza

di Stefano Cappellini
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Giovedì 9 Aprile 2015, 22:34 - Ultimo aggiornamento: 10 Aprile, 00:13
È pesante il fardello che la giornata di Milano ci lascia in dote. Il disegno di morte che si è abbattuto sul Palazzo di giustizia, con il suo carico di lutti, ha travolto le già fragili convinzioni degli italiani sul grado di sicurezza degli obiettivi più esposti alla follia omicida, in un’epoca in cui questa può scaturire da tante fonti, alcune delle quali – ci ricordano le cronache mondiali – ferocemente determinate a scatenarla.



Al dolore per i morti si somma dunque lo sgomento per le domande esplose insieme agli spari dell’assassino, cosicché tutti gli organi dello Stato competenti dovranno farsi carico di spiegare come sia possibile entrare armati in un luogo pubblico come un tribunale, nemmeno di una sperduta cittadina, e sparare su più obiettivi muovendosi all’interno dell’edificio e quindi uscirne in fuga, tutto senza aver mai incontrato un serio ostacolo al piano omicida.



Occorrono risposte chiare e pure dolorose, eventualmente, perché è obbligatorio capire se si tratta di falle rimediabili e di regole d’ingaggio da aggiustare, se è questione di risorse che mancano oppure di un loro più razionale utilizzo, o se invece la nostra sicurezza è affidata all’ingovernabile capriccio della sorte e dell’accidente.



Non serve nemmeno appigliarsi all’imminente inaugurazione dell’Expo milanese o al poco più lontano Giubileo romano per pretendere risposte urgenti, perché la vulnerabilità dell’ordinario quotidiano non è meno preoccupante di quella dei grandi eventi. Ma non basta. Perché la tragedia di Milano ci interroga pure su un’altra questione, quella su cui si fonda, o per meglio dire affonda, la nostra convivenza civile: non è stato colpito un luogo pubblico qualunque ma il tempio laico nel quale si amministra la giustizia, dove ogni giorno torti e ragioni vengono indagati, e talvolta risarciti i primi e riconosciute le seconde.



Un luogo che si vorrebbe al riparo non solo dalla violenza armata ma anche dall’intemperanza ideologica. Sono bastate poche ore – il conto delle vittime non era ancora nemmeno ufficiale – perché il dibattito pubblico dimostrasse che altre falle, oltre alle faccende di guardianìa, sono già aperte nelle nostre reti di protezione civica.



Peggio che intempestive, sono arrivate le dichiarazioni dell’ex pm di Mani Pulite Gherardo Colombo, forse scosso dallo stupro di un luogo che è stato a lungo la sua sede di lavoro, certo turbato dalla perdita di un collega che conosceva personalmente, di sicuro non equilibrato mentre tra le cause del blitz elencava «il brutto clima contro la magistratura», arrivando persino a richiamare la polemica tra toghe e governo sulla durata delle ferie.



Si potrebbe chiedere a Colombo a quale altro inclemente clima si debba la triste sorte dell’avvocato e delle altre vittime non togate, si finirebbe però su una china più grottesca che inutile. Le parole di Colombo – riprese con più cautela dal segretario dell’Anm – restituiscono lo stato di guerra permanente che incombe su ogni discussione riguardante l’amministrazione della giustizia anche nei giorni – fortunatamente tutti gli altri eccetto oggi – in cui non sono le pistolettate a dettare parole e reazioni.



La tentazione di strumentalizzare la cronaca, di piegarne partigianamente l’interpretazione, è un vizio molto italico e un esercizio polemico da respingere, tanto più quando si manifesta prima ancora di avere contezza dei fatti. E persino le frasi del presidente della Repubblica Sergio Mattarella davanti al plenum straordinario del Csm («Basta discredito sui magistrati»), pronunciate senza dubbio con altro intento, rischiano di essere gettate nel fuoco delle polemiche anziché contribuire a spegnerlo nel giorno del lutto.



Di incendiari, del resto, è folto il plotone. Come già altri sparatori folli, pure l’assassino di Milano ha subito ispirato, se non proprio i suoi apologeti, comunque dei giustificatori, pronti a esibirsi con i loro arsenali di benaltrismo e di sociologia da strapazzo sul giustiziere vessato, in quelle fogne che i social network sanno diventare con inquietante puntualità.



Toccò a Preiti, l’assalitore dei carabinieri di guardia a Palazzo Chigi, toccò ai vendicatori di Equitalia ed è evidente che derubricare questi sfoghi a semplice teppismo mediatico equivale a rimuovere l’esistenza di un grumo di violenza e risentimento che è, di suo, un’altra causa di fragilità del nostro Paese, dato che una democrazia matura si difende con gli anticorpi sociali quanto con l’intelligence e le forze di polizia e che un lupo solitario – sia egli jihadista o imputato di bancarotta – non è mai così solitario se intorno a lui tanti, troppi, ne riverberano la follia.