La svolta possibile/ Più efficaci se il Paese fa quadrato

di Oscar Giannino
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Giovedì 29 Giugno 2017, 00:20
È giusta e necessaria, la svolta del governo italiano in Europa sul flusso ingestibile di profughi in arrivo sulle coste italiane. Non è l’improvviso manifestarsi di un muscolarismo esasperato dalle circostanze, ma l’esito di un’analisi doverosa che porta la firma del ministro Marco Minniti. Tutti i segni erano sempre più evidenti da mesi, visto che dall’inizio dell’anno il flusso di arrivi in Italia è in aumento del 13,4% sul 2016, con oltre 77mila profughi. Ma in tre giorni l’inizio dell’estate e le condizioni del mare hanno portato a ritmi di 10-12 mila arrivi ogni 36 ore. Un tale aumento improvviso di magnitudine va affrontato immediatamente. In caso contrario il sistema di accoglienza nazionale, su tre sfere concentriche tra centri di emergenza nei luoghi di sbarco, sistema Sprar per i potenziali rifugiati che oggi ospita meno di 40 mila individui, e i Cas di emergenza disposti dai prefetti nei territori italiani con quasi 200mila migranti in carico, sarebbe destinato in poche settimane fatalmente a collassare.

La cosa giusta da fare era dunque dare un segnale immediato all’Unione Europa. L’Italia ha comunicato al commissario europeo Avramopoulos che l’Italia in questa situazione è pronta a impedire gli sbarchi nei nostri porti innanzitutto da parte delle oltre 20 navi di ONG che non battono bandiera italiana, e che negli ultimi mesi sono diventate sempre più protagoniste del recupero di profughi poco fuori o dentro addirittura il limite di 12 miglia delle acque territoriali libiche. 

Ma la posizione italiana investirebbe inevitabilmente le navi che fanno parte del doppio dispositivo europeo operante nel Mediterraneo: la missione Triton di Frontex, l’agenzia europea per le frontiere esterne, subentrata a fine 2014 a quella italiana Mare Nostrum per impedire ingressi ilegali nelle frontiere marittime italiane; e quella attiva da metà 2015, EunavForMed, il cui fine specifico è contrastare le reti criminali che operano la tratta di carne umana, mettendone anche fuori uso le imbarcazioni. 

Dagli anni Novanta l’Italia ha accettato che il cosiddetto place of safety, il luogo di sbarco dei profughi salvati nel Mediterraneo centrale, centro orientale e centro occidentale, fosse sempre e solo un porto italiano. Non dovrebbe essere così secondo la Convenzione Internazionale dei Diritti del Mare, e la Convenzione di Amburgo del 1979 sulla ricerca e il soccorso marittimo. Il place of safety dovrebbe essere individuato a seconda della competenza dell’area di responsabilità Sar, di ricerca e salvataggio, che per ogni Paese si spinge 12 miglia oltre le 12 miglia di acque territoriali. Nel Mediterraneo contrale quella di Malta è la più vasta area Sar, copre ben 250mila chilometri quadrati. Ma Malta ha sempre rifiutato sbarchi. E la stessa cosa è avvenuta per la Libia e la Tunisia, nel cui limite SAR operano le navi delle Ong che sono diventate il vettore prioritario degli arrivi in Italia. 
La scelta umanitaria italiana ha salvato dal 1991 oltre 500mila vite nel Mediterraneo – stima della indagine conoscitiva svolta al Senato nel 2015 – ed è stata condizionata da due eventi internazionali. In primis la collisione tra la corvetta italiana Sibilla e un mezzo navale albanese stipato di profughi in cui perirono 108 persone, nel marzo 1997, che ci fece abbandonare il ruolo navale di interdizione attiva nell’Adriatico che avevamo concordato con le autorità albanesi. E la condanna rimediata dall’Italia nel febbraio 2012 dalla Corte Europea dei Diritti Umani, per i respingimenti attuati in mare verso la Libia, anch’essi concordati con le autorità libiche dall’Italia nei protocolli del Trattato di amicizia di Brngasi del 2008. 

Va ricordato che nessun Paese al mondo ha seguito la linea di aprire i porti nazionali allo sbarco di chi è salvato in Sar non di propria pertinenza. Non lo ha fatto la Spagna, che ha praticamente azzerato l’immigrazione illegale via mare. Non lo ha fatto l’Australia, che fin dal 2001 ha fisicamente impedito a mercantili di qualunque bandiera di sbarcare profughi afghani nei propri porti, accompagnandoli con proprie unità militari verso la Nuova Guinea o le isole Nauru.

L’Italia ha pazientemente assolto il suo dovere umanitario, e da anni ha passo dopo passo convinto una riottosa Europa a estendere la propria presenza. Ma le quote di redistribuzione europea non funzionano. I Paesi dell’Europa orientale hanno puntato i piedi. Persino la Germania ha ricominciato i reimpatri coatti per via area. E noi non possiamo immaginare di gestire un fenomeno che può arrivare a oltre 200mila sbarchi l’anno.
Si tratta, dunque, di tornare al pieno rispetto delle leggi del mare. Ponendo termine all’eccezione italiana, che per decenni abbiamo accettato di rappresentare per solidarietà umana. Negli ultimi due giorni il Capo dello Stato Mattarella, in viaggio in Canada, ha pronunciato parole chiare: “così il fenomeno è ingestibile”. Ieri Gentiloni ha confermato. “L’Unione Europa non può volgere altrove lo sguardo e le spalle”.

Bisogna augurarsi che la politica italiana sappia ora fare quadrato, intorno a questa nuova posizione. Perché l’unità del Paese su un tema così strategico ci renderebbe più forti al tavolo con l’Europa. Non solo perché il tema ha già evidentemente esercitato un peso nelle scelte degli italiani, alle amministrative di domenica scorsa. Ma soprattutto perché è solo l’inizio di un complesso negoziato volto a fissare regole nuove, ma questa volta partendo da una posizione energica dell’Italia. Abbiamo adempiuto e continueremo a salvare tantissime vite umane. Ma l’Italia non può continuare a fare miracoli. Le leggi internazionali devono valere anche per noi, altrimenti l’enorme traffico di carne umana prenderà sempre più le navi delle ONG come un servizio traghetti a esclusiva destinazione italiana.
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