Ma per quei barconi costo ancora più alto

di Paolo Graldi
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Venerdì 28 Ottobre 2016, 00:26 - Ultimo aggiornamento: 00:27
È finita a salsicce, costolette alla brace e lambrusco. È finita con una mesta, miserevole festicciola degli abitanti del paese tutti insieme e solidali la protesta delle barricate di pallet che ha impedito l’arrivo e l’accoglienza di dodici donne e alcuni bambini. Di colore, (Costa d’Avorio, Nuova Guinea, Nigeria) s’intende, rifugiate, ovviamente, reduci dalla traversata del Mediterraneo, redivive, certo. 

La storia di Goro e di Gorino, la Bassa dove la nebbia si taglia a fette come la polenta, e dove i 40 abitanti vivono della pesca delle vongole quando si trovano della misura pretesa dalla Ue, almeno quella brutta scena di sgangherata euforia si è chiusa per mancanza della materia del contendere: le immigrate hanno trovato ripostigli provvisori in tre paesi vicini. 

E quella donna, tra loro, che aspetta un bambino può sperare di partorirlo in ospedale, pronta una coperta calda e una culla in un’aria che profuma di accoglienza autentica. Tuttavia, pur prestandosi a giudizi severi, la piccola rivolta del polesine contiene elementi da tenere sott’occhio. Intanto l’improvvisazione, marcatissima, che ha accompagnato la missione: nessuno aveva avvertito il sindaco, tutti colti di sorpresa, l’unico alberghetto con unico bar della comunità requisito dal prefetto. Che poi si è rimangiato tutto per non peggiorare le cose. Goro e Gorino hanno sofferto, al di là di ogni valutazione che comunque meriterebbe cautela, il lampo crudo di un sistema che procede con la frusta dell’emergenza, facendosi largo a forza di ordinanze e precetti, lanciando dall’alto soluzioni che alla prova dei fatti denunciano impatti devastanti. Il rischio è che stavolta il clamore mediatico e la evidente sgradevolezza di certe prove siano portatori di una diffidenza diffusa, sottovalutata, fronteggiata con metodi muscolari e senza l’arma del dialogo. 

L’ondata continua di arrivi dall’Africa, il diffondersi di una paura magari esagerata, magari neppure reale e solo immaginata, si traduce comunque in una forma di rigetto totale, senza se e senza ma. Non li vogliamo e basta, si sente ripetere. Qui siamo di fronte ad uno scompenso non solo culturale, ma antropologico. Per altri versi il ciclone migratorio ci ha trovati scoperti e impreparati su molti fronti. L’onda è andata montando e in una prima fase abbiamo cinicamente sperato che il nostro Paese fosse soltanto un lungo ponte verso il Nord. E li abbiamo salvati in mare com’era sacrosanto fare ma poi sperando che, clandestini sopportati e invisibili, continuassero la loro marcia della speranza verso l’altrove. Non è andata così. Ai valichi sono spuntati gendarmi e sbarre abbassate, sui treni controllori in tenuta anti-sommossa, sulle strade muri di acciaia e di filo spinato. Le vie di terra, i Balcani, si sono chiuse. 

Qui, su questo preciso punto, si gioca una partita che potrebbe diventare davvero pericolosa. La disperazione, nel tempo, si trasforma, evolve in violenza perché viene vissuta come una trappola per topi, senza scampo. Noi, il nostro Paese, è adesso esposto al massimo a molti rischi: non soltanto quello del costo altissimo e non ancora riconosciuto a Bruxelles. Ed è anche per questo che la voce migranti è capitolo importantissimo nelle richieste che il governo italiano sta facendo all’Europa. 

Da tre anni il numero di chi vince l’incubo della traversata aumenta di parecchio e quasi mai, aggiornandolo, ci si ricorda di sommarlo a quelli precedenti. Centomila, 150 mila, 160 mila. Il Paese è grande e non dovrebbe preoccuparsi: c’è ancora posto per tutti. E però l’emorragia non si ferma. Nessun barcone, finora, è tornato indietro. Quelli senza approdo sono affondati. L’arresto di qualche scafista è valso poco o niente come deterrente. Resta il problema più grande e per il momento di difficile gestione: dove va questa gente e, soprattutto, con il passare del tempo, ambientandosi, che cosa farà per sopravvivere, per rendere a sé e all’ospite, cioè a noi, una convenienza pur minima. 

Situazione complessa, quasi inestricabile sulla quale, c’è da giurarlo, la malavita allungherà i propri artigli afferrando manodopera a buon mercato. Dunque, non soluzioni strutturali ma solo colpi di frusta emergenziali, a fronte di incomprensioni con i partner che andranno accentuandosi quando sarà il momento della ripartizione del carico umano. Nel dopoguerra i tedeschi fornivano agli immigrati libretti bilingue con le istruzioni per l’uso da rispettare, un libretto dei diritti e dei doveri. Noi siamo ancora a sperare che ci dicano come si chiamano, lasciandoci anche una impronta. 

Mentre loro sanno che il rischio, qualunque sia la ragione che li ha portati qui che nessuno per ora ha la forza di riportarceli. Se poi, forse è improbabile ma non può essere escluso, tra i tanti umiliate dalle guerre e dalla fame si infiltra un terrorista e ci porta guai, allora sarà durissimo spiegare che l’accoglienza è un dovere a cui non possiamo sottrarci. Sbarrare le strade e compiacersene a suon di salsicce e lambrusco, come a Gorino, mette i brividi. Lo scenario complessivo non è brutto solo là dove tutto è avvolto dalla nebbia che sale da Po. È ovunque.
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